Dead
Kennedys: la faccia
“cattiva” del punk.
Nella
musica è un po’ come nella letteratura, si tende sempre a
“periodizzare” le epoche e a creare dei confini ideali in cui
poter collocare gli artisti. Una comoda sistemazione da manuale, ma
difficile da attuare in casi, come quello dei Dead
Kennedys,
in cui le sperimentazioni e l’accumulazione di generi diversi
impediscono una collocazione coerente. In fondo sono le sfumature
delle trasformazioni musicali che rendono questa band californiana
una delle più alternative nel panorama del punk. Si, ma loro sono il
volto oscuro del punk: la deriva hardcore o, come preferisce Jello
Biafra, la nascita del new wave. Siamo nei mitici anni ’80, nel
meglio della gioventù punk, quando questi anarcoidi ragazzotti di
San. Francisco irrompono sulla scena musicale. Nel loro sound c’è
tutta la violenza e la rabbia di quegli anni, della controversa
politica militare degli Stati Uniti, delle nuove frontiere umane: una
summa di istanze sociali non indifferenti. La trasposizione, o
meglio, la traduzione sonora è composta da suoni veloci e sequenze
di riff
improvvise
ed inaspettate. I Dead
Kennedys si
propongono al grande pubblico davvero in pompa magna: con un nome
provocatorio a dir poco per i supernazionalisti statunitensi e con la
copertina del primo disco ufficiale, Fresh
Fruit For Rotting Vegetables,
in cui c’è un ovvio riferimento alle White
Night Riots.
Difficile da vendere un prodotto ideologicamente sconveniente, eppure
la sostanza musicale non mancava affatto. Se ne accorsero per primi
gli inglesi, ormai più vicini storicamente al momento d’esaurimento
della parabola del punk. E strano a dirsi, proprio Kill
the poor sembra
la parodia del genere britannico, fantastico! Sicuramente l’idea
malsana del rock e del punk rimase uno dei motivi di riconoscimento
del loro marchio musicale, ma le sperimentazioni sonore portarono la
band ai confini con l’hardcore, in un territorio ancora da
conoscere. Il meglio della produzione dei Dead
Kennedys è
tuttavia rintracciabile in due canzoni-manifesto, uscite nello stesso
disco: Holiday
in Cambodia e
California
Über Alles.
La prima è un chiarissimo rifiuto delle dittature, con riferimento
al regime di Pol Pot e alla guerra sociale in Cambogia, e la seconda
è la proclamazione dell’antifascismo, attraverso un duro attacco
all’allora governatore della California, Jerry Brown. La storia
prosegue e le provocazioni si acuiscono. Con In
God We Trust. Inc.,
la band è costretta a fondare una propria casa discografica per
vendere il disco a causa di incompatibilità con la precedente. E
come poteva non essere motivo di discordia l’immagine di Cristo
crocifisso su allettanti pacchi di dollaroni? Doveva immaginarlo il
vecchio produttore che il simbolo di Cristo sarebbe divenuto uno
degli stilemi più riconoscibili e comunicativi del punk-rock.
Intanto nel novembre del 1982 esce il terzo album, Plastic
Surgery Disasters,
e nell’ottobre del 1985 esce Frankenchrist.
La
strada verso la fine è ormai iniziata, nonostante la brillante
ripresa con Badtime
for Democracy,
perché le esasperazioni ideologiche e musicali iniziano a far
crollare i consensi. I Dead
Kennedys
diventano ben presto l’emblema della musica deviata, con i suoi
numerosi richiami a membri genitali, parolacce, uso di droghe e
violenza. Inoltre la continua critica alla politica corrotta inizia a
generare un sentimento malsano di antipolitica che spesso li associa
a movimenti anarco-insurrezionalisti e li accusa di attacchi politici
troppo gratuiti. In realtà, ciò che aveva esaurito il suo raggio
d’azione non erano di certo le traduzioni e i contenuti delle
canzoni, ma forse il sound ancora acerbo del proto-hardcore, ancora
incompreso, e delle continue sperimentazioni musicali, fatte di
contaminazioni e riprese che vanno dal rock al country. Soltanto
negli ultimi anni si è riscoperta la portata musicale di questi
figli della rabbia, dopo la pubblicazione di un dvd con i concerti
dal vivo della band. Forse un po’ di sano rancore ci servirebbe per
riscattare la nostra memoria e rivendicare i nostri diritti, invece
di sentire l’improponibile inquinamento acustico propostoci da tv e
radio di recente. La musica deve permetterci di coltivare
l’intelligenza, sempre.
Virginia
Machera
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