lunedì 21 maggio 2012

gli articoli del numero di aprile online #10


Dead Kennedys: la faccia “cattiva” del punk.
Nella musica è un po’ come nella letteratura, si tende sempre a “periodizzare” le epoche e a creare dei confini ideali in cui poter collocare gli artisti. Una comoda sistemazione da manuale, ma difficile da attuare in casi, come quello dei Dead Kennedys, in cui le sperimentazioni e l’accumulazione di generi diversi impediscono una collocazione coerente. In fondo sono le sfumature delle trasformazioni musicali che rendono questa band californiana una delle più alternative nel panorama del punk. Si, ma loro sono il volto oscuro del punk: la deriva hardcore o, come preferisce Jello Biafra, la nascita del new wave. Siamo nei mitici anni ’80, nel meglio della gioventù punk, quando questi anarcoidi ragazzotti di San. Francisco irrompono sulla scena musicale. Nel loro sound c’è tutta la violenza e la rabbia di quegli anni, della controversa politica militare degli Stati Uniti, delle nuove frontiere umane: una summa di istanze sociali non indifferenti. La trasposizione, o meglio, la traduzione sonora è composta da suoni veloci e sequenze di riff improvvise ed inaspettate. I Dead Kennedys si propongono al grande pubblico davvero in pompa magna: con un nome provocatorio a dir poco per i supernazionalisti statunitensi e con la copertina del primo disco ufficiale, Fresh Fruit For Rotting Vegetables, in cui c’è un ovvio riferimento alle White Night Riots. Difficile da vendere un prodotto ideologicamente sconveniente, eppure la sostanza musicale non mancava affatto. Se ne accorsero per primi gli inglesi, ormai più vicini storicamente al momento d’esaurimento della parabola del punk. E strano a dirsi, proprio Kill the poor sembra la parodia del genere britannico, fantastico! Sicuramente l’idea malsana del rock e del punk rimase uno dei motivi di riconoscimento del loro marchio musicale, ma le sperimentazioni sonore portarono la band ai confini con l’hardcore, in un territorio ancora da conoscere. Il meglio della produzione dei Dead Kennedys è tuttavia rintracciabile in due canzoni-manifesto, uscite nello stesso disco: Holiday in Cambodia e California Über Alles. La prima è un chiarissimo rifiuto delle dittature, con riferimento al regime di Pol Pot e alla guerra sociale in Cambogia, e la seconda è la proclamazione dell’antifascismo, attraverso un duro attacco all’allora governatore della California, Jerry Brown. La storia prosegue e le provocazioni si acuiscono. Con In God We Trust. Inc., la band è costretta a fondare una propria casa discografica per vendere il disco a causa di incompatibilità con la precedente. E come poteva non essere motivo di discordia l’immagine di Cristo crocifisso su allettanti pacchi di dollaroni? Doveva immaginarlo il vecchio produttore che il simbolo di Cristo sarebbe divenuto uno degli stilemi più riconoscibili e comunicativi del punk-rock. Intanto nel novembre del 1982 esce il terzo album, Plastic Surgery Disasters, e nell’ottobre del 1985 esce Frankenchrist. La strada verso la fine è ormai iniziata, nonostante la brillante ripresa con Badtime for Democracy, perché le esasperazioni ideologiche e musicali iniziano a far crollare i consensi. I Dead Kennedys diventano ben presto l’emblema della musica deviata, con i suoi numerosi richiami a membri genitali, parolacce, uso di droghe e violenza. Inoltre la continua critica alla politica corrotta inizia a generare un sentimento malsano di antipolitica che spesso li associa a movimenti anarco-insurrezionalisti e li accusa di attacchi politici troppo gratuiti. In realtà, ciò che aveva esaurito il suo raggio d’azione non erano di certo le traduzioni e i contenuti delle canzoni, ma forse il sound ancora acerbo del proto-hardcore, ancora incompreso, e delle continue sperimentazioni musicali, fatte di contaminazioni e riprese che vanno dal rock al country. Soltanto negli ultimi anni si è riscoperta la portata musicale di questi figli della rabbia, dopo la pubblicazione di un dvd con i concerti dal vivo della band. Forse un po’ di sano rancore ci servirebbe per riscattare la nostra memoria e rivendicare i nostri diritti, invece di sentire l’improponibile inquinamento acustico propostoci da tv e radio di recente. La musica deve permetterci di coltivare l’intelligenza, sempre.
Virginia Machera

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