lunedì 21 maggio 2012

gli articoli del numero di aprile online # copertina, editoriale, cit. del mese







Vox Studenti, aprile 2012



Un giorno questo inutile ti sarà utile.

C'è un libro di Peter Cameron, pubblicato da Adelphi (da cui hanno tratto anche un film) che si intitola Un giorno questo dolore ti sarà utile, ecco: in questa sede non mi interessa nulla né del contenuto del film, né di quello del libro, né di Cameron.
Mi interessa il titolo, o meglio mi torna utile riprenderlo come più mi aggrada, e cioè in questo modo: un giorno questo inutile ti sarà utile.
Cos'è? Forse una legge suprema, la legge suprema del giovane italiano sotto i trent'anni (e forse non solo).
Bene, cosa vuol dire tutto questo? Vuol dire cercare di convincersi che tutto l'inutile che svolgiamo (scrivere; organizzare; contattare; intervistare; chiedere per sapere; portare avanti un giornale universitario senza fondi; cercare di vendere biglietti per un'ottima rassegna di teatro civile e altro), ben consapevoli del baratro che abbiamo di fronte, continuare a fare il proprio dovere (in sintesi né più né meno che quello) tenendo conto della relazione che esiste tra impegno e guadagno, continuare a sapere dentro di noi: un giorno tutto questo inutile ci sarà utile.
Un giorno tutte queste inutilità ci serviranno. Un giorno sarà servita anche l'esperienza di Vox Studenti a tutti noi? Un giorno sarà servito scontrarsi con mille dubbi e problemi che non facevano strettamente parte dei nostri doveri di studente. E un giorno tutta la nostra fatica sui libri ci sarà utile. Ricordiamocelo.

Suvvia, quella è utile: lo sappiamo! 
È utile a prescindere. Mai dimenticarlo. Noi ci crediamo, ancora. Voi? Sì, che ci credete. C'è poco da deprimersi, ragazzi, una volta svegli dal lungo sonno del 3+2, no? Deprimiamoci durante, allora. Senza lagnarsi, ci si deprima. Deprimiamoci, svegliamoci ogni mattina coi dubbi e guardiamoli in faccia uno ad uno; la scadenza della presentazione del piano di studi segnamola a margine di un foglio scrauso da mettere in agenda: nella testa lasciamo le informazioni più utili: il sapere che sta entrando e deve entrare e restare, le nozioni che il tempo filtrerà e resteranno la nostra cultura e la nostra formazione e l'attività di studenti. 

Professione: studente. È una professione. L'esame non è un'intervista a punti. Svegliamoci, tutti. Questi sono gli anni in cui star svegli, il sonno arriverà. Sono gli anni del rischio dell'impresa, sono gli anni del 'c'ho provato' e passano in fretta e di colpo, «prima a poco, a poco, poi all'improvviso»: ti ritrovi un gradino più in alto e non ti è più permesso rischiare; o: provare tanto per provare. Gli anni dell'università sono gli anni in cui si decide chi diventare nella vita, c'è poco da girarci attorno: è così. 
Non si sputa addosso alla cultura, alla formazione, non si sputa sopra la propria formazione e non si danno colpe gratuite a nessuno, a noi stessi, sì: facciamolo. Ogni tanto fa bene. Incolpiamoci, processiamoci.
Tutti lo sapevamo che era difficile la strada davanti a noi, tutti sappiamo quanti insegnanti ci sono in giro, quanti a spasso. Lo sapevamo benissimo, e lo sappiamo tuttora che fondamentalmente il mondo d'oggi ha davvero bisogno di poco e manca di tutto, che abbiamo il tasso di disoccupazione giovanile al 31,9% e che siamo nel bel mezzo della crisi e di una tangentopoli senza nome. (olé, il profumo della vita è evaporato insieme a chi ha sceneggiato Amarcord e viene ricordato per un'insulsa pubblicità? No, o non del tutto. Che cos'è il tutto? Pretenzioso. No?)

Il periodo non è roseo, e Vox Studenti forse, pensate un po': uscirà in bianco e nero: sciocchezza, questa? Certo, ma in fondo è perfettamente in linea coi tempi. Il colore costa e forse non possiamo permettercelo più.

Se invece c'è una cosa che non è in linea coi tempi ma è un evergreen, un buon classico da tirar fuori quando serve, quella cosa è la mente, eh: usiamola. Sapete tutto quelle cose tipo: «il cervello è come un paracadute funziona solo quando si apre?». (Apritelo il cervello, in tempi di crisi. Cerchiamo di aprirlo, è l'unica risorsa che non può toglierci nessuno). 

Oppure, segnatevi questa, questa è bella:
«La missione di ogni uomo consiste nell’essere una forza della natura e non un grumo agitato di guai e di rancori che recrimina perché l’universo non si dedica a renderlo felice» G.B.S.

Quante volte siamo un grumo agitato di guai e rancori? E quante volte diamo all'universo – intero, eh: sì, tutto, proprio tutto – colpe che non ha? Quante volte chi fa qualcosa nella vita, e qualcosa in cui crede, si trova di fronte a uno specchio che riflette tutto l'apparente inutile e tutto il lavoro invisibile in eccedenza rispetto al guadagno che quel lavoro gli ha dato? Quante? Molte. Una marea di persone fanno i conti con tutto l'inutile – in tempo di crisi moltiplicatosi in maniera esagerata – che ruba tempo, energie e quella cosa che un tempo si chiamava 'entusiasmo'. Bella cosa l'entusiasmo, in tempi di crisi costa più della benzina che pure è arrivata a prezzi esagerati.

Ne avevo, di entusiasmo, quando ho iniziato. Ero l'entusiasmo fatto persona, poi forse ho perso entusiasmo e sono diventata più persona, si diventa adulti e a volte è tutt'altro che entusiasmante. (Gianni, tu e il tuo ottimismo, dove siete? Chiede labile una voce fuori campo).

L'entusiasmo, l'inutile, l'utile. E il dilettevole? (Che poi come ci si può divertire con un parola così vecchia e inutile? L'inutile 'dilettevole'). Vox Studenti è divertente? Dilettevole? Sì: se si ha uno scopo si prova diletto, è notorio (diletto, invece, è parola bellissima). E noi, penso, uno scopo ce l'abbiamo ancora. Noi di Vox, noi studenti, noi italiani sotto i trent'anni. Noi, tutti.

Ma anche Vox Studenti è un 'inutile', eh! Credetemi: è quanto di più inutile possa esistere (ah, lo sapete, ah: ok). Oh, noi che ci scriviamo, io e questi altri matti della nuova compagnia Vox Studenti (una specie di Compagnia delle Indie, ma con molto poco da commerciare) lo sappiamo benissimo e qualche volta forse lo pensiamo: un giorno tutto questo Vox Studenti ci sarà utile? Perché non molliamo tutto e nelle pause studio non ci divertiamo e basta?
Perché non studiamo e poi ci concediamo tanta calma invece di affannarci a fare banchetti (e non dico stravizzi, naturalmente); perché ci ostiniamo a bombardare le mail del resto della redazione per ricordare scadenze/cosedafare/cosedarileggereper?

Calma. La calma.

Ci sono periodi in cui non esiste, o forse ci sono periodi in cui per restare calmi bisogna restare in equilibrio sopra la frenesia, questo è. Sì, va beh, sarà la solita influenza di Vasco Rossi ma non si tratta di follia (il suo era «equilibrio sopra la follia», ndr), solo di pura odiosa frenesia (Vasco che tra le altre cose sembra entrato di forza anche nei titoli in libreria: Cosa succede in città, di Santarossa, e Solo colpa d'Alfredo, uscito per Cairo Editore).

Parentesi.
 Una delle tante. Finestra. Una delle tante. 
Aperte, ora: altra finestra: senti Francesco che ti sta mandando i suggerimenti di lettura per la rubrica (a fine Vox a p. 12 li trovate, e sono belli anche questi, e sono contenta); trova il tempo di rispondere a una mail importante (le mail importanti aprono gli occhi); cerca di finire l'articolo sulla rassegna di teatro civile perché così non è articolo (perché così non è); riprendi in mano la Moleskine rossa e ritaglia via tutte le cose lasciate in sospeso e mettiti a studiare, e tutto il resto, tutto quello che non è studio: un giorno, forse, anche tutto questo inutile ti (ci/vi) sarà utile. Lo so, lo so che è così. (o forse no?).

Non è un editoriale, è un editoriale in tempi di crisi di un italiano ventenne che studia, vede un futuro in bianco e nero e dice: cercherò di colorarlo. E proveremo a farlo anche in questo Vox Studenti più pezzente del solito: il vostro Vox Pezzenti in b/n.

Forse non sarà possibile ma ci proveremo. Se non sarà possibile vuol dire che era impossibile. Punto. Tutto, dico. I colori, il bianco e nero, Vox, il futuro. (Che poi il b/n è elegantissimo).

Affamati? Folli? Siate, anche, molto pratici. Siamo in crisi, per favore. C'è poco da girarci intorno. Che sia una mente pratica la nostra, in tempi di crisi, praticamente.

Tamara Baris



gli articoli del numero di aprile on line # (t)-writ(t)er


gli articoli del numero di aprile online #10


Dead Kennedys: la faccia “cattiva” del punk.
Nella musica è un po’ come nella letteratura, si tende sempre a “periodizzare” le epoche e a creare dei confini ideali in cui poter collocare gli artisti. Una comoda sistemazione da manuale, ma difficile da attuare in casi, come quello dei Dead Kennedys, in cui le sperimentazioni e l’accumulazione di generi diversi impediscono una collocazione coerente. In fondo sono le sfumature delle trasformazioni musicali che rendono questa band californiana una delle più alternative nel panorama del punk. Si, ma loro sono il volto oscuro del punk: la deriva hardcore o, come preferisce Jello Biafra, la nascita del new wave. Siamo nei mitici anni ’80, nel meglio della gioventù punk, quando questi anarcoidi ragazzotti di San. Francisco irrompono sulla scena musicale. Nel loro sound c’è tutta la violenza e la rabbia di quegli anni, della controversa politica militare degli Stati Uniti, delle nuove frontiere umane: una summa di istanze sociali non indifferenti. La trasposizione, o meglio, la traduzione sonora è composta da suoni veloci e sequenze di riff improvvise ed inaspettate. I Dead Kennedys si propongono al grande pubblico davvero in pompa magna: con un nome provocatorio a dir poco per i supernazionalisti statunitensi e con la copertina del primo disco ufficiale, Fresh Fruit For Rotting Vegetables, in cui c’è un ovvio riferimento alle White Night Riots. Difficile da vendere un prodotto ideologicamente sconveniente, eppure la sostanza musicale non mancava affatto. Se ne accorsero per primi gli inglesi, ormai più vicini storicamente al momento d’esaurimento della parabola del punk. E strano a dirsi, proprio Kill the poor sembra la parodia del genere britannico, fantastico! Sicuramente l’idea malsana del rock e del punk rimase uno dei motivi di riconoscimento del loro marchio musicale, ma le sperimentazioni sonore portarono la band ai confini con l’hardcore, in un territorio ancora da conoscere. Il meglio della produzione dei Dead Kennedys è tuttavia rintracciabile in due canzoni-manifesto, uscite nello stesso disco: Holiday in Cambodia e California Über Alles. La prima è un chiarissimo rifiuto delle dittature, con riferimento al regime di Pol Pot e alla guerra sociale in Cambogia, e la seconda è la proclamazione dell’antifascismo, attraverso un duro attacco all’allora governatore della California, Jerry Brown. La storia prosegue e le provocazioni si acuiscono. Con In God We Trust. Inc., la band è costretta a fondare una propria casa discografica per vendere il disco a causa di incompatibilità con la precedente. E come poteva non essere motivo di discordia l’immagine di Cristo crocifisso su allettanti pacchi di dollaroni? Doveva immaginarlo il vecchio produttore che il simbolo di Cristo sarebbe divenuto uno degli stilemi più riconoscibili e comunicativi del punk-rock. Intanto nel novembre del 1982 esce il terzo album, Plastic Surgery Disasters, e nell’ottobre del 1985 esce Frankenchrist. La strada verso la fine è ormai iniziata, nonostante la brillante ripresa con Badtime for Democracy, perché le esasperazioni ideologiche e musicali iniziano a far crollare i consensi. I Dead Kennedys diventano ben presto l’emblema della musica deviata, con i suoi numerosi richiami a membri genitali, parolacce, uso di droghe e violenza. Inoltre la continua critica alla politica corrotta inizia a generare un sentimento malsano di antipolitica che spesso li associa a movimenti anarco-insurrezionalisti e li accusa di attacchi politici troppo gratuiti. In realtà, ciò che aveva esaurito il suo raggio d’azione non erano di certo le traduzioni e i contenuti delle canzoni, ma forse il sound ancora acerbo del proto-hardcore, ancora incompreso, e delle continue sperimentazioni musicali, fatte di contaminazioni e riprese che vanno dal rock al country. Soltanto negli ultimi anni si è riscoperta la portata musicale di questi figli della rabbia, dopo la pubblicazione di un dvd con i concerti dal vivo della band. Forse un po’ di sano rancore ci servirebbe per riscattare la nostra memoria e rivendicare i nostri diritti, invece di sentire l’improponibile inquinamento acustico propostoci da tv e radio di recente. La musica deve permetterci di coltivare l’intelligenza, sempre.
Virginia Machera

gli articoli del numero di aprile online #9


MA, DIVERSAMENTE ABILE A CHI?
Handicappato, disabile o diversamente abile? Qual è la definizione meno offensiva, qual è la parola meno discriminante? La mia risposta, ormai da molti anni, al quesito che ha impegnato giuristi e linguisti e che di sovente ricorre sulla bocca degli idioti non può che essere una soltanto. Innanzitutto le parole, così come le conosciamo nel loro uso comune, hanno un colore semantico neutro. Sono gli utenti ed i parlanti a connotarle di un significato, associando ad esse un’idea. Appurato velocemente questo dato, è facile dedurre che nessuna delle tre parole è portatrice a priori di un significato che possa ledere la sensibilità altrui o che possa discriminare qualcuno. Tuttavia associazioni, enti e organizzazioni no profit si affannano nel ricercare sempre nuove definizioni che siano meno sgradevoli e offensive: una vera corsa all’eufemismo. (La rabbia e la tristezza sono lecite a questo punto). Viviamo in una società in cui l’uomo mostra, a tratti, ancora i segni della sua natura, altro che “contratto sociale”! Vince il più forte ed il più debole soccombe all’indifferenza. Nel moderno villaggio globale, in cui ciò che conta è l’omologazione alla massa ed alla maggioranza, la diversità è sentita come segno di debolezza, di vergogna. L’uomo è sempre più attanagliato da un senso di competizione, di gloria, da un’ansia di arrivare, di correre, come insegnano Grande Fratello, Amici, L’isola dei Famosi e simili balordaggini. Non c’è più la cultura della solidarietà, dell’identità, del riconoscimento dell’altro; si è quotidianamente impegnati in processi di esclusione dei più deboli, dei diversi. Ma cosa può significare allora diversamente abile? Nulla. Tutti siamo diversamente abili nelle nostre potenzialità: c’è chi sa dipingere, chi sa risolvere problemi matematici, chi sa ballare. Noi tutti abbiamo delle disabilità proprio in virtù della nostra natura imperfetta di essere umano. Eppure nessuno di noi è chiamato disabile se ha entrambe le gambe, se ci vede bene, se non ha un ritardo cognitivo, se non balbetta, se non ha subito un’operazione al cuore, perché nessuno di noi si sognerebbe mai di “definire” l’altro in base ad una sua disabilità o abilità. È la totalità delle nostre capacità che ci definisce e non la mancanza di qualcosa. L’uomo non è fatto soltanto di vista, di gambe, di braccia, di cervello o di cuore. L’identità di essere umano va ben oltre queste attenuanti, l’essere una persona basta e avanza. Finché non si capirà che l’uomo è persona in quanto tale per i rapporti che intreccia con la società, per la somma delle sue diversità, per il suo bagaglio genetico e per i suoi numerosi talenti, non ci saranno mai termini adatti e meno offensivi per definirlo. E poi non c’è bisogno di classificare la diversità, non c’è bisogno di etichettare le abilità o di definire qualcuno attraverso una parte del “tutto”. Sono le intenzioni e gli atteggiamenti a monte di poter e dover creare dei gruppi sociali che creano discriminazione ed isolamento. Non sarebbe offensiva la parola negro se si comprendesse che il colore della pelle è una diversità genetica e non una differenza sociale e che non sono necessari strumenti di misura dell’uguaglianza, se uguaglianza c’è. Il punto, a mio avviso, è che l’altro fa paura e che dai suoi istinti di sopraffazione e di prevaricazione del più debole l’uomo in fondo non si è mai emancipato del tutto. E la ricerca affannosa di parole e definizioni più adatte alla diversità non è che l’occultamento di una mancanza di educazione alla solidarietà e alla tolleranza o forse la necessità inconscia di espiare difronte a chissà quale Dio le proprie colpe, di esorcizzare le proprie paure. Ad essere solidali si comincia dalle piccole cose, non servono donazioni esose, non serve pubblicare su facebook foto dell’azione cattolica in pompa magna o fare la pubblicità della Fabbrica del Sorriso come fa la Marcuzzi, dicendo che i bambini disabili sono bambini con una “d” in più (purtroppo Alessia non sa che non esistono bambini disabili, ma solo bambini, e che l’identità di ognuno di essi non sta di certo nella mancanza di una gamba o nella presenza di qualche malattia). Serve più educazione al rispetto ed alla tolleranza, più solidarietà. Si cominci dalle scuole, dalle famiglie, dalle chiese. Si cominci col dire che noi rifiutiamo questa cultura della paura del diverso, dell’extracomunitario, del terrorista, del nero, del tossico, del napoletano o del gay, diffusa da una comunicazione mass-mediatica ignorante, destroide e corrotta. Si cominci col ribadire che SIAMO TUTTI DIVERSAMENTE ABILI e tutti abbiamo un nome e cognome, sufficienti per dire chi siamo.
Virginia Machera



gli articoli del numero di aprile online #8


IL TFA: ALCUNE INFORMAZIONI TECNICHE



Nonostante il numero dei posti sia decisamente superiore ai fabbisogni reali (elemento che, ripeto, aumenterà le illusioni nei giovani), si ritiene opportuno illustrare alcuni aspetti tecnici in merito all’imminente partenza del TFA (da indiscrezioni sembra che il bando possa essere emanato nelle prossime settimane).


MODALITA’ DI ACCESSO E COSTI

Al TFA si accede attraverso una procedura concorsuale a numero chiuso costituita da tre prove. La prima prova è un test preliminare a risposta chiusa (quattro opzioni di risposta per ogni domanda) di contenuto identico su tutto il territorio nazionale (destinato a svolgersi, per ogni classe di concorso, nel medesimo giorno in tutti gli atenei). Il test, predisposto dal MIUR, prevede la somministrazione di sessanta domande in tre ore: ogni risposta corretta vale 0,5 punti, ogni risposta non data o errata vale 0 punti. Il punteggio massimo raggiungibile è uguale a 30 punti: per essere ammessi alla seconda prova occorre conseguire un punteggio uguale o superiore a 21/30, ovvero rispondere correttamente ad almeno 42 domande su 60 (il 70% dei quesiti).
Di queste sessanta domande dieci sono dedicate alla lingua italiana e alla comprensione dei testi (per tutte le classi di concorso); le altre cinquanta vertono sui contenuti disciplinari specifici.
La seconda prova, anch’essa scritta, è organizzata autonomamente dai singoli atenei: domande a risposta aperta, analisi del testo, traduzioni dal greco e dal latino (o dalle lingue moderne), dimostrazioni o esercizi di vario tipo a seconda della disciplina per cui si concorre. Per essere ammessi alla terza prova occorre conseguire un punteggio uguale o superiore a 21/30 nella singola prova.
L’ultima prova, anch’essa a cura dei singoli atenei, è orale: per superarla occorre raggiungere un punteggio pari o superiore a 15/20. La graduatoria finale degli ammessi al tirocinio formativo attivo è costituita sommando il punteggio delle prove (da un minimo di 57/80 ad un massimo di 80/80) con il punteggio titoli (voto di laurea, media esami, eventuale servizio prestato, altri titoli).
Secondo le ultime informazioni disponibili le prove di accesso  potrebbero costare 30 euro, mentre l’intero percorso potrebbe avere un costo simile a quello delle SSIS (1500 – 2000 euro). Ovviamente questo dato dimostra l’interesse degli atenei per l’aumento dei posti da bandire.

ATTIVITA’ DEL TFA

Il TFA è un corso universitario annuale che prevede attività per un totale di 60cfu:
  • 18 cfu di didattica e pedagogia speciale (elementi base della didattica e della pedagogia);
  • 18 cfu di didattica disciplinare e laboratorio (attività fondamentali se collegate con la pratica didattica osservata e attuata durante il tirocinio a scuola);
  • 19 cfu di tirocinio, ovvero 475 ore a scuola, di cui 75 dedicate ad alunni diversamente abili;
  • 5 cfu di tesi e relazione finale.

LA DISPONIBILITA’ DEI POSTI

Secondo quanto previsto dal DM 14 marzo 2012 n. 31, l’Università di Cassino ha ottenuto la seguente disponibilità di posti:
  • 30 posti classe di concorso A043 (Italiano, storia e geografia nella scuola secondaria di I grado);
  • 10 posti classi A245 – A345 – A445 – A545 (lingue straniere scuola secondaria I grado);
  • 20 posti classe A029 (Educazione fisica nelle scuole secondarie di II grado);
  • 10 posti classe A036 (Filosofia, psicologia e scienze dell’educazione);
  • 20 posti classe A037 (Filosofia e Storia);
  • 10 posti classe A039 (Geografia);
  • 30 posti classe A050 (Materie letterarie negli istituti di istruzione di II grado);
  • 30 posti classe A051 (Materie letterarie e latin nei licei e negli istituti magistrali);
  • 30 posti classe A052 (Materie letterarie, latino e greco nel liceo classico);
  • 10 posti classe A061 (Storia dell’arte);
  • 30 posti classe A246 (lingua e civiltà francese – scuola secondaria di II grado);
  • 30 posti classe A346 (lingua e civiltà inglese – scuola secondaria di II grado);
  • 10 posti classe A446 (lingua e civiltà spagnola – scuola secondaria di II grado);
  • 10 posti classe A546 (lingua e civiltà tedesca – scuola secondaria di II grado);
  • 15 posti classe A646 (lingua e civiltà russa – scuola secondaria di II grado).


E DOPO L’ABILITAZIONE?

Con il TFA si consegue l’abilitazione all’insegnamento nella scuola secondaria di I e II grado: ora il titolo abilitante consente l’iscrizione nelle graduatorie per le supplenze presenti in ogni singola scuola (le graduatorie d’istituto), in subordine rispetto agli insegnanti precari iscritti nelle graduatorie provinciali gestite dai provveditorati (iscritti in prima fascia, mentre i nuovi abilitati andranno in seconda fascia; chi non è abilitato è iscritto in terza fascia).
L’abilitazione all’insegnamento può essere utilizzata nella scuola paritaria, secondo quanto prevede la legge 62/2000 (in molti casi questa normativa viene disattesa dalle scuole paritarie in nome della” libertà di scelta”). A normativa vigente il titolo abilitante è, inoltre, requisito necessario per poter partecipare ai concorsi a cattedra che, a detta del ministro Profumo, torneranno ad essere attuate nei prossimi anni, sempre che siano disponibili posti in organico (la riforma Fornero determinerà la riduzione dei pensionamenti del personale della scuola per i prossimi 6-9 anni).
La materia del reclutamento è, purtroppo, ostaggio di forze politiche orientate alla ricerca del consenso di questo o quel gruppo: la speranza è che la politica possa prendere una decisione definitiva sulla materia, dando a TUTTI, neoabilitati, sissini, precari storici, la possibilità di puntare all’immissione in ruolo attraverso procedure della massima trasparenza, evitando ogni forma di sanatoria e di favoritismo (i cosiddetti concorsi di istituto, tecnicamente orientabili verso la chiamata diretta da parte dei dirigenti, scelta completamente discrezionale e contraria ad ogni principio meritocratico).
Per ogni informazione sono disponibile o su Facebook (Enrico Maria Polizzano) oppure al seguente indirizzo di posta elettronica: enrico8322@gmail.com



Alcuni riflessioni sui numeri e
sulle eccessive aspettative degli insegnanti


TFA: FABBISOGNI GONFIATI E NUOVE ILLUSIONI PER I GIOVANI


Il colpo di scena è arrivato venerdì 2 marzo, quando sul sito del MIUR è comparso un comunicato stampa relativo ai fabbisogni dei percorsi di TFA: 4275 posti per le scuole secondarie di primo grado, 15792 per le scuole secondarie di secondo grado, per un totale di 20067 posti. Nel comunicato è presente anche la ripartizione regionale di questi posti: si va dai 279 posti del Friuli Venezia Giulia agli oltre 3000 della regione Lazio.
Questo primo documento è stato seguito, due settimane dopo, dal decreto ministeriale n. 31, che riporta la suddivisione e la ripartizione dei posti negli atenei. Nel decreto un dato appare nettamente in contraddizione con quanto previsto dal regolamento ministeriale sulla formazione iniziale elaborato nel corso del dicastero Gelmini: la stima dei pensionamenti previsti (poco più di 10000 unità tra scuole medie e superiori) è stata maggiorata nel limite del 30% in relazione, così come scritto nel DM, non al fabbisogno dell’intero sistema di istruzione nazionale, bensì tenendo conto dei “pensionamenti”. Fuori dai tecnicismi, che cosa significa tutto questo?
L’articolo 5 del DM 249/2010, ossia del regolamento ministeriale Gelmini, prevede che il numero dei posti sia bandito tenendo conto dei fabbisogni delle scuole statali maggiorato del 30% in relazione alle esigenze dell’intero sistema nazionale di istruzione (che comprende le scuole paritarie) e dell’offerta formativa degli atenei. Questa disposizione normativa non collega direttamente i posti messi in palio per il conseguimento dell’abilitazione alle cattedre fisicamente presenti, ma aumenta a dismisura il numero dei posti da bandire.
Passando ai numeri, un particolare emerge chiaramente: diversamente dalle SSIS, che prevedevano l’attivazione di un solo percorso abilitante in ogni singola regione, i posti del TFA sono stati ripartiti tra quasi tutti gli atenei regionali. Il calcolo dell’entità dei posti disponibili risulta, per alcune discipline (classi di concorso), assolutamente spropositato rispetto ai posti effettivamente a disposizione: per alcune materie colpite duramente dai tagli della riforma Gelmini e dal calo di iscrizioni il MIUR ha previsto l’attivazione di una valanga di posti. Due esempi possono aiutare a chiarire la situazione: per la classe di concorso A017 (economia aziendale – scuola superiore) il cui organico risulta in ESUBERO a livello nazionale (con la possibilità che docenti di ruolo, privi ormai della cattedra, possano essere messi in mobilità e LICENZIATI se non ricollocati su altre discipline), sono stati banditi 610 posti a livello nazionale; alla A052 (latino e greco nel liceo classico), materia colpita da esuberi di docenti a tempo indeterminato in quasi tutte le province italiane, il MIUR ha assegnato 750 posti!
La situazione è davvero paradossale: la responsabilità di una suddivisione ESAGERATA e IRRAZIONALE dei posti si deve attribuire ai Comitati regionali di coordinamento che, invece di tenere conto dei posti fisicamente disponibili (dati facilmente ricavabili dall’amministrazione), hanno preferito seguire le richieste accademiche, con l’inevitabile conseguenza di creare ULTERIORI ILLUSIONI nei neoabilitati.
Si potrebbe obiettare che 20000 posti non sono tanti rispetto ai 10000 mediamente banditi ogni anno dalle SSIS: il problema, in realtà, è che in questi quattro anni di sospensione di ogni forma abilitante si è verificato il taglio di 90000 posti in organico (dati recenti dimostrano che la riduzione dei posti rispetto all’a.s. 2008-2009 è pari a 130000 posti, tenendo conto anche delle supplenze brevi, diminuite in maniera sensibile) in seguito alla riforma ordinamentale attuata dal ministro Gelmini.
Un’altra possibile obiezione alla mia tesi sarebbe che conseguire l’abilitazione non implica, automaticamente, il raggiungimento del posto fisso (tesi sostenuta nell’Appello ai Giovani, documento sottoscritto nell’estate 2011 per richiedere l’attivazione del TFA con un numero di posti decisamente superiore al fabbisogno della scuola statale).
Vorrei soltanto ricordare a tutti coloro che hanno sottoscritto l’Appello ai Giovani e che sono giunti ad avanzare notevoli pressioni politiche (culminate, nell’agosto 2011, con un incontro a Palazzo Chigi interno all’allora maggioranza parlamentare del PDL), che gli insegnanti non sono una categoria professionale come gli avvocati, non sono liberi professionisti. Tutti gli insegnanti precari (sia chi lavora nella scuola statale sia chi presta servizio nelle scuole paritarie) PRETENDONO di essere assunti nella scuola statale in virtù del servizio prestato: a mio avviso sarebbe opportuno, per realizzare questa legittima aspettativa, avviare concorsi a cattedra basati sui posti effettivamente disponibili, con numeri chiari, evitando ogni forma di “chiamata diretta” così come evocato da una recente proposta della giunta regionale lombarda.
Per tutti questi motivi non posso che dissociarmi apertamente da tutta la retorica dell’APPELLO AI GIOVANI, da chi sostiene che i precari della scuola attualmente in servizio siano stati assunti con sanatorie e scorciatoie: molti puntano a raggiungere il posto nella scuola statale non perché vogliono insegnare davvero qualcosa ai ragazzi, dare loro un esempio di serietà, di professionalità, di merito, di doveri e diritti, bensì per ottenere soltanto una sicurezza economica, una stabilità lavorativa fregandosene del ruolo di educatori. La mentalità piccolo – borghese, secondo cui tutti devono entrare nella Pubblica Amministrazione, in qualsiasi modo, continua a riprodursi e ad illudere i giovani, vittime di un sistema che non è stato scalfito nemmeno dagli intenti riformatori del ministro Gelmini, assolutamente disattesi ed esplicatisi soltanto in una scriteriata politica di tagli.

Enrico Maria Polizzano


gli articoli del numero di aprile online #7



La bufera giudiziaria che si è abbattuta sulla Lega Nord, da qualche tempo a questa parte, oltre ad evidenziare ancora una volta - l'ennesima - il pessimo stato di salute in cui versano i partiti politici nostrani offre, se non altro, l'occasione di tentare una riflessione più approfondita riguardo ai fattori che hanno portato un movimento tanto controverso ed ambiguo a divenire un partito ben radicato nella società in virtù di un consenso via via crescente, al punto di arrivare ad essere un partito di governo a livello locale, prima, e regionale, ma soprattutto nazionale, poi.
Non esiste, né forse è mai esistito, in Italia, un partito di governo - è bene ribadirlo - più populista della Lega Nord. Affermazione che, inevitabilmente, richiede un chiarimento circa la definizione di "populismo".
Parola ormai d'abuso comune, quantomeno nel lessico politico, spesso erroneamente utilizzata come sinonimo di "demagogia" - a cui spesso si accompagna e di cui la Lega ha fatto un uso smodato - , deve il suo fascino alle suggestioni ch'è in grado di evocare.
Populismo è un sistema in cui tra il capo ed il "suo" popolo intercorre un rapporto diretto, privo di alcuna mediazione: da esso deriva un potere esercitato senza troppi vincoli o controlli quali possono esser considerate le pastoie di leggi ritenute eccessivamente coartanti e che finiscano dunque per incrinare il legame genuino, quasi paterno, tra il leader ed il suo seguito indifferenziato; conferito senza seguire procedure eccessivamente complicate, con forme quasi plebiscitarie.
Un "potere carismatico", quindi, volendo fare riferimento alla classificazione dei poteri legittimi messa a punto dal sociologo tedesco Max Weber: potere che poggia "sulla dedizione straordinaria al valore esemplare o alla forza eroica o al carattere sacro di una persona" e degli ordinamenti che questa ha creato.
 
Basti pensare allo straordinario grado di sostegno, quasi incondizionato, che Bossi ha saputo conservare nel bel mezzo della recente disfatta per comprendere come le capacità di captazione del consenso della Lega trascendano la dimensione meramente politica.
Come in ogni populismo ricollegabile all'area delle destre che si rispetti, essa ha saputo portare avanti un discorso xenofobo ed autonomista - non privo di ipocrisie; vedasi le velleità secessionistiche da ritenersi, per l'appunto, tali: pure e semplici velleità - ancor prima che antieuropeo ed antiglobalista facendo leva, con mirabile ars retorica, su "sentimenti irrazionali e bisogni sociali latenti, alimentando la paura o l'odio nei confronti dell'avversario politico o di minoranze utilizzate come capro espiatorio". Quelle minoranze che, siano esse politiche, etniche o quant'altro, in quanto imperdonabili portatrici di diversità minano la pax sociale tanto faticosamente costruita e alimentata, deturpano l'idillio tra il conduttore e le sue genti.
O tra il pastore e le sue greggi. Perché verità di fondo inconfessabile comune a tutti i populismi è che il "popolo", che concorre a formare il Sovrano-Leviatano di Hobbes con molteplicità mostruosa dei suoi corpi, debba essere guidato. Che non sappia stare sulle proprie gambe, che non sia ancora pronto. "Così, assistiamo all'esplosione della retorica e dell'invettiva (facile ma banale) e all'involuzione della dialettica (difficile sui media, ma almeno interessante). Peraltro, la debolezza dei contenuti va fatta risalire a un'idea preliminare del suffragio, ovvero la credenza che il corpo elettorale sia ormai frammentato in gruppi di interesse e non più in blocchi sociali, e che la vittoria finale dipenda dunque dalla capacità di attrarre le più ampie ed eterogenee diversità. Le proposte, allora, diventano fragili e poco identificabili, e le stesse candidature rivelano i negoziati nascosti che a loro soggiacciono. Diventa quasi inevitabile far ricorso all'eventuale carisma del capo per coprire l'assenza di fascino dei concetti, e sperare nelle sue capacità di contatto col pubblico in sostituzione della perdita di efficacia simbolica dei contenuti (altro che "popolo", gli elettori sono diventati nient'altro che "pubblico")".
In ciò, senza alcun dubbio, Umberto Bossi è stato maestro, abile nel "raffigurare il popolo come "gente comune", contrapposto alle élite e ai loro intellettualismi e ad utilizzare le paure della "gente" (immigrazione, crisi economica e sociale) per tirare su il fortino identitario"; precursore, ancorché grezzo e d'istinto, rispetto al suo nemico fraterno, quel Berlusconi reo di "aver indotto i suoi critici a una attenzione ossessiva verso una contemporaneità sgradevole e a confondere il sintomo con la causa", navigato oratore in grado di parlare al cuore della gente toccando le opportune corde. Bravo nel delegittimare l'operato avversario ad ogni costo, nello sfuggire spesso e volentieri alle severe e scomode regole della democrazia costituzionale, nell'"evitare di subire passivamente il "teatrino" della politica, il petulante contraddittorio delle opposizioni, l'occhiuta vigilanza del capo dello Stato, le impudenti indiscrezioni della stampa, le vocianti reazioni della piazza, l'evocazione continua, benché velleitaria, del conflitto d' interessi".
Un'altra riflessione, a questo punto, sorge spontanea. Ai soli Bossi e Berlusconi è possibile tacciare le responsabilità di un populismo "de noantri"? La risposta, univoca e secca, è: no. C'è dell'altro.
C'è una tendenza, attualmente, che caratterizza tutti i partiti, nessuno escluso. E' la personalizzazione del potere, sempre più intensa ed intransigente, linfa di un populismo che sfrutta la intrinseca, complice predisposizione dei media - ed in particolar modo della tv - a spettacolarizzare la politica, con tutto quanto di becero ne consegue.
Partiti "personali", o meglio "personalizzati", "riassunti e riassumibili in un leader specifico,costruiti oppure evoluti come macchine al suo servizio".
 
E, dunque: non è forse da ritenersi un valido esempio di populismo di sinistra - e per questo ancora più sinistro - l'ormai noto caso di Matteo Renzi alla Stazione Leopolda di Firenze? Oppure, la retorica di partiti come l'Italia dei Valori, anch'essa veemente ed aggressiva, tesa alla denigrazione e delegittimazione dell'avversario, e tanto ossequiosa rispetto alla presunta forza persuasiva del proprio leader da giungere a ricorrere al suo nome in sede di propaganda elettorale? E la "Lista Pannella", o la "Lista Bonino" tra i Radicali?
Ancora, non è forse populismo quello di chi si straccia le vesti per l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori senza però interrogarsi a fondo riguardo alle concrete garanzie offerte ad un'intera generazione circa il proprio futuro lavorativo, come a ragione fa notare Tommaso di Brango nello scorso numero di Vox? E che dire, infine, del populismo locale, se possibile ancora più intriso di ipocrisia ed ambiguità, non fosse altro che per le "eccellenze" di cui ogni Comune, Provincia o Regione vagheggia di poter disporre, o per la noncuranza con cui gli stessi fingono di ignorare le dinamiche socio-politico-economiche ormai globali al punto di contrapporre ad esse, all'occorrenza, interessi locali - perlopiù privati - puri e semplici?
Questo, e molto altro ancora, è stato reso possibile in larga parte da tratti sociali, culturali e ideologici su cui è difficile intervenire. Ma è bene tener conto di come un populismo sempre più onnipervasivo conduca a due sole vie, entrambe nocive, se non addirittura letali, per qualsiasi democrazia: la via del qualunquismo, definitivo e incontrovertibile, e la via dell'antipolitica militante.
Attraverso di esse il populismo si fortifica, legittimando sé stesso in un circolo vizioso apparentemente senza fine. Nascono così coalizioni prive di coerenza interna, animate solo dalla ricerca del consenso a breve termine. La politica perde dunque la sua dimensione forse più nobile, quella della progettualità e della lungimiranza. "La lungimiranza può contrastare con domande forti e diffuse che invece, da un punto di vista elettorale, conviene assecondare". Il populismo non fa che assecondare tali domande, e da esse viene di rimando assecondato. Ciò in virtù anche e soprattutto di quelle modificazioni che si erano andate cumulando nel profondo della società italiana, di cui Berlusconi era sì sintomo, ma non causa. Le stesse modificazioni, allora però ancora in divenire, che Pier Paolo Pasolini aveva indagato negli "Scritti corsari" e nelle "Lettere luterane".
Come reagire, dunque?
L'unico modo, allo stato attuale delle cose, per poter sperare di ottenere benefici futuri - anche se, proprio per questo, "incerti e opinabili" - è proseguire imperterriti nella costruzione quotidiana della propria persona attraverso una costante crescita culturale ed intellettuale, e sperare che altri facciano altrettanto.
Nel suo "Socialismo, Anarchismo, Sindacalismo", Bertrand Russell scriveva: "Coloro le cui vite sono feconde per sé stessi, per i loro amici o per il loro mondo, sono ispirati dalla speranza e sostenuti dalla gioia; essi vedono con l'immaginazione le possibilità del futuro e il modo in cui esse devono essere realizzate. (...) Nel loro lavoro non sono perseguitati dalla gelosia dei competitori, ma il loro unico interesse è il reale problema che deve essere affrontato e risolto. In politica essi non consumano il loro tempo e il loro entusiasmo nella difesa di ingiusti privilegi della loro classe o della loro nazione, ma aspirano a rendere il mondo complessivamente più felice, meno crudele, meno ricco di conflitti tra interessi rivali, e più ricco di esseri umani la cui crescita non è stata conculcata e ostacolata dall'oppressione".
Quello che dunque i populisti non dicono è che necessitano della nostra ignoranza, della nostra incapacità critica, per poter prosperare: colmi di viltà lo sottintendono, mentre puntano l'indice contro IL nemico, reo designato, desumibile o presumibile, d'ogni nefandezza, causa causarum di ogni male; e ci accompagnano verso il baratro cingendoci le spalle, amichevolmente.


Fonti / Per approfondire:
- http://www.italianieuropei.it/it/la-rivista/ultimo-numero/item/1793-populismo-una-definizione-indefinita-per-eccesso-di-definizioni.html
- http://doppiozero.com/materiali/cartoline-da/parigi-lo-spazio-del-populismo
- http://www.rivistailmulino.it/journal/articlefulltext/index/Article/Journal:RWARTICLE:36337

- Alfabeta2 , Numero 17 - Anno III, Marzo 2012: "Populismi inquinanti" (Marcello Flores, Alfio Mastropaolo, Fausto Bertinotti, Claudio Martini, Omar Calabrese, Alessandro Cannamela).



Matteo Canale Parola

gli articoli del numero di aprile online #6



Berlusconi non è un fascista
Per diverso tempo si è parlato del berlusconismo come di una sorta di fascismo. Lo ha fatto Alberto Asor Rosa, che ha ritenuto di poter dire che l’uomo di Arcore ha instaurato in Italia un regime addirittura peggiore di quello di Mussolini; lo ha fatto Massimo Giannini, che ha scritto un libro per stabilire una sorta di equivalenza tra i due fenomeni; lo ha fatto Franco Cordero, per il quale addirittura i riti esorcistici dell’intellettualità liberal del “Corriere della Sera” sono analoghi a quelli che, nel ’22, proponeva Luigi Albertini.
E certo, Asor Rosa, Giannini, Cordero e gli altri che hanno sostenuto questa tesi hanno dalla loro il fatto che Berlusconi, specie dal 2008 in poi, ha mostrato un piglio decisionista tendenzialmente eversivo, che esternava palese fastidio per i meccanismi che garantiscono l’esistenza in vita della nostra democrazia. Ma, altrettanto certamente, non ovunque ci sono atteggiamenti di stampo decisionista/eversivo c’è fascismo. Ci sono stati anche nella Russia sovietica: eppure non era fascismo; e ci sono stati anche nella Russia di Putin: eppure non era fascismo (tanto che Veltroni arrivò a parlare di “deriva putiniana” a proposito delle disinvolture di Berlusconi). Definire “fascista” ogni fenomeno non schiettamente democratico significa ragionare come un critico letterario che definisce “poeta” chiunque abbia scritto almeno una raccolta di poesie in vita sua.
Viceversa, esistono condizioni storiche oggettive in cui, talvolta, i regimi politici entrano in crisi con o senza il desiderio, da parte delle classi dirigenti, di farceli entrare, e questa credo sia la situazione della democrazia italiana degli ultimi trent’anni. Facciamo due passi indietro nella storia. Venne fuori Craxi ed il mito della Grande Riforma per trasformare un Paese dominato dall’antiquata diarchia D.C.-P.C.I. in una democrazia a tutti gli effetti moderna: sappiamo come finì. E sappiamo pure che non finì solo per le ruberie di Craxi e combriccola, ma anche perché si trovò ad avere a che fare con un Paese in cui, per essere rieletti, occorre non toccare i punti nevralgici. Non a caso fu allora che, di fronte al conflitto tra necessità oggettive del Paese e desideri soggettivi dei cittadini (e dei politici), cominciò a venir fuori quella tendenza decisionista e para-autoritaria che in seguito si è rimproverata a Berlusconi.
La storia della Seconda Repubblica – o l’agonia della Prima? – ce l’abbiamo sotto gli occhi nei suoi effetti: impotenza dei governi, riforme a iosa (visto che ogni riforma era, in definitiva, una non-riforma), tendenza alla spettacolarizzazione della politica come tentativo di sopperire alla sua incapacità operativa. L’unica vera eccezione in questi quasi vent’anni è stato, con ogni probabilità, Romano Prodi, che è riuscito nel vero e proprio miracolo – pur aiutato da un’interpretazione abbastanza “flessibile” dei parametri di Maastricht da parte di Francia e Germania – di far entrare un Paese come il nostro nell’euro. E, guarda il caso, l’unico vero sussulto di vita della cosiddetta Seconda Repubblica è, oggi, uno dei principali imputati della situazione di crisi in cui ci troviamo malgrado sia sotto gli occhi di chiunque abbia capacità d’intendere che uscire dall’euro, per noi, sarebbe una vera catastrofe. Come se, per una curiosa legge del contrappasso, la capacità di svolgere un’azione incisiva fosse inevitabilmente votata allo scarso apprezzamento da parte degli italiani – e dei politici che, da Vendola a Bossi, sono ben consapevoli che il populismo, viceversa, paga. Per il resto, la Seconda Repubblica la ritengo un’agonia della Prima perché, come nelle fasi conclusive di quest’ultima, essa si è protratta stancamente tra il carattere epocale dei proclami e la scarsità dei risultati e la causa di questo bifrontismo è stata proprio il fatto che, di tanto in tanto, in Italia si vota. Questa tendenza si è invertita col governo Monti. Tutti l’hanno notato: è sobrio, non fa proclami, non si straccia le vesti. Ma, piaccia (a me spesso piace) o non piaccia (a me a volte non piace), agisce molto più di quanto abbiano fatto i suoi predecessori negli ultimi vent’anni. E perché agisce? Semplice: perché non deve essere votato da nessuno. Quando si tornerà alle urne, tra un anno, non dovrà vedersela con pensionati e tassinari perché, semplicemente, non si presenterà.
Tutto questo lascia pensare che non sia stato Berlusconi a mettere in crisi la democrazia, ma che al contrario Berlusconi sia stato il sintomo di una crisi democratica che era già in atto per conto suo. E fin qui si potrebbe dire (e sarebbe un’obiezione sensata): nemmeno il fascismo provocò la crisi dello Stato liberale, eppure da quella crisi nacque il fascismo. Tuttavia occorre tener presente che, pur nascendo dalla crisi del regime che lo ha preceduto, il fascismo ha segnato una discontinuità rispetto ad esso; il berlusconismo, viceversa, non ha fatto altro che riproporre le dinamiche della democrazia in crisi entro cui ha visto la luce il suo progetto politico. È stato il fenomeno più scintillante della crisi: non la sua risoluzione in senso autoritario. Ciò è talmente vero che tutti coloro che hanno onestamente tentato di fare un bilancio dell’Evo berlusconiano non hanno potuto fare a meno di constatare che il proclama della “Rivoluzione Liberale” con cui si presentò agli elettori è rimasto sostanzialmente disatteso, mentre hanno prevalso gli interessi soggettivi e di parte. Si potrebbe dire che se la cosiddetta Seconda Repubblica è stata l’agonia della Prima, il berlusconismo è stato l’agonia del craxismo. In un quadro del genere era inevitabile che non tutte le azioni dell’uomo di Arcore apparissero dettate da una sincera fede democratica, ed anzi sarebbe stato strano il contrario: se c’è una crisi – qualsiasi tipo di crisi – è inevitabile che ci siano anche i suoi sintomi. Ecco: gli Asor Rosa, i Giannini, i Cordero scambiano i sintomi per la crisi. Berlusconi è il più scintillante sintomo della crisi democratica che stiamo vivendo da trent’anni a questa parte: non una riedizione del fascismo.
Post scriptum. Ho detto che Berlusconi è stato il più notevole sintomo della crisi della nostra democrazia. Da ciò segue, però, che anche Monti, malgrado tutti i meriti che sono disposto a riconoscergli e la simpatia personale che nutro per lui, lo è. Come abbiamo visto prima, infatti, ha invertito la tendenza della Seconda Repubblica perché, a differenza di chi quest’ultima l’ha governata, lui non ha l’assillo di dover sottostare al giudizio degli elettori. Questo vuol dire – ad ulteriore conferma della tesi che ho cercato di argomentare – che la crisi della democrazia non è finita con la fine di Berlusconi, e che anzi occorrerà tener conto del suo perdurare non meno di quanto si tiene conto della crisi economica. Anche perché se da un lato – come ho fatto capire chiaramente – la dicitura “Seconda Repubblica” ha, per me, una valenza più giornalistica che storiografica, dall’altro anche l’idea che essa sia una “agonia della Prima Repubblica” mi convince fino ad un certo punto. Non è infatti impossibile che gli storici di domani, nel leggere gli eventi che stiamo vivendo, più che di “Seconda Repubblica” o di “agonia della Prima Repubblica” parleranno, a proposito degli ultimi vent’anni, di “premessa a…”. A cosa?   


Tommaso Di Brango

gli articoli del numero di aprile online #5


GIOVANNI PASSANNANTE
L’UTOPIA DELLA “REPUBBLICA UNIVERSALE”
DI GIANLUCA MARIO
Nel 1861 si incontrarono a Londra Giuseppe Mazzini e Michail Bakunin. Da questo incontro maturò un programma di lotta che voleva dare vita alla “Repubblica Universale” nella quale gli uomini fossero tutti liberi e senza differenze di classe, riuniti in un fraterno consorzio umano senza alcuna costrizione da parte dello Stato. Gli ideali bakuniani e le aspirazioni mazziniane vennero prese in seria considerazione nel Sud Italia dove le masse agricole vivevano di stenti e di privazioni oppresse dal nuovo governo sorto dopo l’unificazione nazionale. La leva obbligatoria toglieva forza lavoro nei campi e la tassa sul macinato gravava come un macigno sui già miseri contadini. Molti furono i giovani intraprendenti e sognatori che videro nella Repubblica Universale un futuro più roseo. Tra questi giovani idealisti vi era anche un ragazzo di povere origini: Giovanni Passannante. Passannante era nato in una umilissima famiglia di Salvia di Lucania. I problemi economici lo portarono ben presto ad allontanarsi da casa per non gravare sui genitori. Pur avendo avuto una scarsa istruzione primaria il giovane si appassionò alla letteratura e, soprattutto, alla politica. Abbracciate le idee repubblicane iniziò a frequentare circoli filo mazziniani. A Salerno, nel 1870, incitò il popolo a rivoltarsi alla corona sabauda e per questo venne arrestato. Uscito di prigione si recò a Napoli dove visse alla giornata cambiando diversi lavori. Intanto, nel 1878, moriva Vittorio Emanuele II ed il nuovo re, Umberto I, decise di organizzare un viaggio nelle principali città italiane per farsi conoscere dai suoi sudditi. Il 17 novembre 1878 il sovrano giunse nel capoluogo campano. Il corteo si allungava lungo le vie cittadine tra due ali di folla e in molti si avvicinavano alla carrozza reale per chiedere suppliche al monarca. Tra la moltitudine c’era anche il ventinovenne Passannante. Il giovane attese il momento giusto per avvicinarsi al sovrano. Quando fu in prossimità della carrozza salì sul predellino e armato di un coltello tentò di pugnalare il re che riuscì a difendersi rimanendo leggermente ferito ad un braccio. Subito l’accoltellatore venne bloccato dai corazzieri che lo trassero in arresto. Iniziò così un’incessante sequela di interrogatori con i quali gli inquirenti tentarono di capire se l’attentatore avesse agito per conto suo o perché mosso da qualche superiore associazione anarchico-repubblicana. Giunti alla conclusione che Passannante aveva agito da solo perché vedeva racchiusi, come lui diceva, nella monarchia tutti i mali della società e i motivi per i quali il popolo viveva nella povertà più nera, venne emanata la sentenza. Il processo si concluse tra mille polemiche con una condanna a morte, pena commutata con la detenzione a vita in un carcere dell’isola d’Elba. In molte città italiane, infiammate dagli avvenimenti del 17 novembre, scoppiarono sommosse e tumulti. Ci furono scontri con le forze dell’ordine a Pisa, Firenze, Milano, Torino, Genova e Bologna. Il poeta Giovanni Pascoli scrisse addirittura un ode a Passannante e si dice che, declamando i suoi versi, avesse detto: - Se questi sono malfattori, evviva i malfattori! Dopo la condanna Passannante venne condotto nel carcere di Ponteferraio e rinchiuso in una squallida cella. Le scarse condizioni igieniche del tugurio in cui era costretto a vivere portarono ben presto l’ergastolano ad ammalarsi seriamente di scorbuto e di bronchite cronica. L’isolamento gli procurò, oltre ai danni fisici, gravi danni mentali che lo portarono gradualmente alla pazzia. Gli ultimi anni della sua vita Passannante li trascorse in una minuscola cella del manicomio criminale di Montelupo Fiorentino non pentendosi mai delle sue azioni e senza mai rinnegare quelli che furono i suoi ideali.  

gli articoli del numero di aprile online #4


LEGGERE PER VIVERE
DI NELLO VARSAVIA
In una società che assume contorni sempre più distopici,in cui il bombardamento di immagini e l'immediatezza del messaggio visivo va a scapito del lento e meditato lavorio intellettuale necessario per entrare in contatto con la parola scritta,il libro è diventato un oggetto desueto. Le cause che stanno portando all'estinzione dell'attività della lettura sono molteplici: la televisione, i social network,la scuola dell'obbligo che spesso mortifica lo studio e la conoscenza della letteratura in sterili esercizi di analisi dei testi che trascurano il significato delle opere letterarie anche se nel caso specifico del nostro Paese bisogna considerare che non abbiamo mai avuto una classe borghese colta ne abbiamo mai avuto una nostra età del romanzo,le ragioni per cui gli italiani non leggono vanno dunque ricercate anche nel nostro lacunoso pedigree storico. Chi vive,vive la propria vita. Chi legge, vive anche la vita degli altri. La scrittura registra il lavoro del mondo e tramite la lettura noi ereditiamo questo lavoro,ne veniamo trasformati,alla fine di ogni libro e di ogni giornale ognuno di noi è diverso da come era all'inizio. Se qualcuno non legge libri ne articoli ignora quel lavoro,è come se il mondo lavorasse per tutti non per lui,l'umanità corre ma lui è fermo. Fra letteratura, vita e mondo c'è una relazione costante e diretta,la letteratura è pensiero e conoscenza del mondo psichico in cui viviamo. La realtà che la letteratura vuole conoscere è semplicemente (ma al tempo stesso non vi è nulla di più complesso) l'esperienza umana. Questo continuo interscambio fra le esperienze della vita e quelle della lettura non viene di certo favorito dai molti libri inutili e dannosi di cui è saturo il cosmo dell'editoria (quelli di Moccia in particolare sono un insuperato e forse insuperabile stupidario).Un bravo lettore è in primo luogo colui che sa quali libri non leggere e a mio modestissimo parere le migliori letture sono quelle attraverso cui possiamo ritrovare le problematiche del nostro tempo: la perdita dei valori tradizionali e della individualità, la contraddittorietà dei propri stati di coscienza, il senso di estraneità, il rapporto con il diverso, la crisi e la solitudine dell'uomo. Il compito delle famiglie, delle istituzioni ma più in generale di ogni singolo lettore è quello di cercare di trasmettere il valore inestimabile dei libri che non devono mai diventare uno strumento di potere, un trofeo da sfoggiare, un mezzo per umiliare le persone più ignoranti a suon di citazioni e minuscoli granelli di falsa certezza sciorinati spocchiosamente. L'atto della leggere non deve avere nulla di autoreferenziale, al contrario deve renderci più liberi e aperti, nutrire il nostro spirito ma anche consolarci dai momenti di sconforto, renderci più coscienti e consapevoli, più creativi, meno soggetti a pregiudizi e condizionamenti. Facendoci muovere nel tempo e nello spazio la lettura arricchisce le nostre esistenze e ci consegna le chiavi per aprire i lucchetti infiniti della realtà.



















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GIOVANNI PASSANNANTE
L’UTOPIA DELLA “REPUBBLICA UNIVERSALE”
DI GIANLUCA MARIO
Nel 1861 si incontrarono a Londra Giuseppe Mazzini e Michail Bakunin. Da questo incontro maturò un programma di lotta che voleva dare vita alla “Repubblica Universale” nella quale gli uomini fossero tutti liberi e senza differenze di classe, riuniti in un fraterno consorzio umano senza alcuna costrizione da parte dello Stato. Gli ideali bakuniani e le aspirazioni mazziniane vennero prese in seria considerazione nel Sud Italia dove le masse agricole vivevano di stenti e di privazioni oppresse dal nuovo governo sorto dopo l’unificazione nazionale. La leva obbligatoria toglieva forza lavoro nei campi e la tassa sul macinato gravava come un macigno sui già miseri contadini. Molti furono i giovani intraprendenti e sognatori che videro nella Repubblica Universale un futuro più roseo. Tra questi giovani idealisti vi era anche un ragazzo di povere origini: Giovanni Passannante. Passannante era nato in una umilissima famiglia di Salvia di Lucania. I problemi economici lo portarono ben presto ad allontanarsi da casa per non gravare sui genitori. Pur avendo avuto una scarsa istruzione primaria il giovane si appassionò alla letteratura e, soprattutto, alla politica. Abbracciate le idee repubblicane iniziò a frequentare circoli filo mazziniani. A Salerno, nel 1870, incitò il popolo a rivoltarsi alla corona sabauda e per questo venne arrestato. Uscito di prigione si recò a Napoli dove visse alla giornata cambiando diversi lavori. Intanto, nel 1878, moriva Vittorio Emanuele II ed il nuovo re, Umberto I, decise di organizzare un viaggio nelle principali città italiane per farsi conoscere dai suoi sudditi. Il 17 novembre 1878 il sovrano giunse nel capoluogo campano. Il corteo si allungava lungo le vie cittadine tra due ali di folla e in molti si avvicinavano alla carrozza reale per chiedere suppliche al monarca. Tra la moltitudine c’era anche il ventinovenne Passannante. Il giovane attese il momento giusto per avvicinarsi al sovrano. Quando fu in prossimità della carrozza salì sul predellino e armato di un coltello tentò di pugnalare il re che riuscì a difendersi rimanendo leggermente ferito ad un braccio. Subito l’accoltellatore venne bloccato dai corazzieri che lo trassero in arresto. Iniziò così un’incessante sequela di interrogatori con i quali gli inquirenti tentarono di capire se l’attentatore avesse agito per conto suo o perché mosso da qualche superiore associazione anarchico-repubblicana. Giunti alla conclusione che Passannante aveva agito da solo perché vedeva racchiusi, come lui diceva, nella monarchia tutti i mali della società e i motivi per i quali il popolo viveva nella povertà più nera, venne emanata la sentenza. Il processo si concluse tra mille polemiche con una condanna a morte, pena commutata con la detenzione a vita in un carcere dell’isola d’Elba. In molte città italiane, infiammate dagli avvenimenti del 17 novembre, scoppiarono sommosse e tumulti. Ci furono scontri con le forze dell’ordine a Pisa, Firenze, Milano, Torino, Genova e Bologna. Il poeta Giovanni Pascoli scrisse addirittura un ode a Passannante e si dice che, declamando i suoi versi, avesse detto: - Se questi sono malfattori, evviva i malfattori! Dopo la condanna Passannante venne condotto nel carcere di Ponteferraio e rinchiuso in una squallida cella. Le scarse condizioni igieniche del tugurio in cui era costretto a vivere portarono ben presto l’ergastolano ad ammalarsi seriamente di scorbuto e di bronchite cronica. L’isolamento gli procurò, oltre ai danni fisici, gravi danni mentali che lo portarono gradualmente alla pazzia. Gli ultimi anni della sua vita Passannante li trascorse in una minuscola cella del manicomio criminale di Montelupo Fiorentino non pentendosi mai delle sue azioni e senza mai rinnegare quelli che furono i suoi ideali.  

gli articoli del numero di aprile online #3


UN MONDO DI SEGNI
semiologia e critica sociale
di Mario Ciaburri

Il termine semiologia ( dal greco semeion: “segno”) viene proposto a inizio '900 dal fondatore della linguistica moderna, lo svizzero Ferdinand De Saussure, che la definisce come: “scienza che studia la vita dei segni nel quadro della vita sociale”, considerando il segno come il rapporto tra un concetto , il significato, e un immagine acustica, il significante. Gli sviluppi più interessanti di questa disciplina si hanno però negli anni '60 del secolo scorso, grazie alle teorie strutturaliste e all'opera dell'eclettico pensatore francese Roland Barthes, che partendo dallo studio del segno linguistico ha analizzato i processi di significazione e comunicazione che si sviluppano nel contesto sociale e culturale. Per Barthes dunque, riflessione sul linguaggio è riflessione critica sul mondo, ricerca costante di significazione in ogni fatto o evento. Il suo lavoro si concentra sulla strategia di persuasione che un determinato sistema ideologico ( quello borghese) mette in atto per far passare come “naturali”, fenomeni che sono essenzialmente “storico-culturali”. Un vero e proprio meccanismo di deformazione della realtà attraverso un “linguaggio secondo” che Barthes chiama mito. Riprendendo il segno come concetto saussuriano di unione tra un significante e un significato, esso diventa il significante di un sistema semiologico secondo, che veicola un altro significato. Questo secondo livello rappresenta il mito. Il semiologo o meglio il “mitologo”, deve distinguere nella sua analisi questi due livelli e svelare la deformazione; demolire la significazione del mito borghese che trasforma la realtà del mondo in immagine del mondo, l'immagine che la borghesia si fa e ci fa dei rapporti fra l'uomo e il mondo. Nella nostra società quindi, il carattere mitologico del segno non può che essere “cattivo”, non può che rinviare in maniera più o meno velata a un autorità costituita, a un regime a libertà vigilata. Una cultura che tende a trasformare gli oggetti in segni di quegli oggetti, a caricare di senso cose, persone e fatti che nel divenire “significanti”, perdono ogni contatto con la realtà. Un'analisi quella barthesiana, che prende in considerazione l'estrema vicinanza tra realtà e discorso, tra ciò di cui si parla e come si parla. Da qui l'importanza fondamentale del concetto di linguaggio verbale rispetto a qualsiasi sostanza espressiva non verbale ( immagini, gesti...), in quanto è solo la lingua a nominare il senso e quindi indicare la direzione della significazione. Attraverso lo studio semiologico è quindi possibile dissipare le connotazioni sociali e culturali che la borghesia ha calato sulla lingua, liberandola dall'ideologia di cui è impregnata. Per questo l'attività di semiologo per Barthes, oltre che interesse scientifico e intellettuale, è anche e soprattutto impegno, engagement etico e morale, atto di contestazione contro l'assedio dei segni e dei miti che l'uomo è costretto a subire.

E tuttavia è questo che dobbiamo cercare: una riconciliazione del reale e degli uomini, della descrizione e della spiegazione, dell'oggetto e del sapere” (Roland Barthes, Mythologies)

gli articoli del numero di aprile online #2



Se può essere scritto o pensato, può essere filmato”: l’occhio di Stanley Kubrick sul mondo.


Secondo una definizione di Gilles Deleuze quello di Kubrick è un “cinema del cervello” ma anche un cinema del corpo: mette in scena le destabilizzazioni causate da pulsioni biologiche e fisiologiche proprie dell’uomo. È in questo mistero che Kubrick indaga, lasciandoci capolavori in grado di resistere ai cambiamenti delle mode.
Il suo esordio come regista indipendente risale al 1950 per poi affermarsi a metà degli anni Cinquanta nel cinema di genere, in particolare del film noir. Nelle sue prime tre opere “nere”, Fear and Desire (1953), Il bacio dell'assassino (1955) e Rapina a mano armata (1956), Kubrick introduce elementi di rinnovamento che troveranno ampio spazio in Orizzonti di gloria, del 1957, e Spartacus, del 1960, in cui però si ha un'ulteriore evoluzione della visione del mondo kubrickiana che si andrà sempre più radicando in un pessimismo di fondo.
Abbandonando in cinema gangseristico dei suoi primi film per quello bellico, il regista ha saputo rappresentare le inevitabili complicazioni della società borghese sviluppando poi un discorso politico di natura universale: una visione antimilitarista, progressista, ispirata alle tesi del liberalismo moderato. La sua giovinezza inoltre trascorre durante gli anni della seconda guerra mondiale: non sembra un caso, quindi, il continuo ritorno dei suoi film sul tema della guerra come costante antropologica.
Negli anni Sessanta Kubrick si trasferisce in Gran Bretagna ed è in questo periodo che approfondisce la sua riflessione sulla società contemporanea post-capitalistica e soprattutto sulla condizione dell'uomo. In questi anni nascono storie come Lolita (1962) e Il dottor Stranamore (1964). Il primo, tratto dall’omonimo romanzo-scandalo di Nabokov, crea qualche problema al regista in quanto il film avrebbe potuto mostrare ciò che nel libro era solo implicito: la storia racconta infatti l'attrazione che un uomo di trentanove anni prova per una dodicenne.
Il dottor Stranamore affronta invece temi politici quali il conflitto Usa-Urrss, la corsa agli armamenti, il pericolo di una guerra atomica che, con un’amara ironia, palesano risvolti apocalittici e decisamente catastrofici.
Nel 1968, un anno prima dello sbarco sulla Luna, esce 2001: Odissea nello spazio, film che mette in atto un'opprimente rappresentazione di una società immaginaria che rischia di cancellare l'uomo negli anni del terrore atomico scattato con la crisi di Cuba nel 1962.
Il 1971 è l’anno di Arancia meccanica, ritratto della violenza totalmente gratuita di un gruppo di giovani che svela la faccia più pericolosa di una società gravemente debole. Kubrick teme per la propria incolumità e lo ritira dalle sale inglesi, solo nel 2000 il film tornerà ad essere proiettato in Gran Bretagna.
Dal 1976 al 1999 Kubrick realizza solo quattro film: Barry Lyndon, ritratto di un’ Irlanda borghese ed ipocrita del XVIII secolo, Shining, del 1980, un horror imperniato sulla progressiva discesa negli inferi della follia di uno scrittore, Full Metal Jacket, film del 1987 sulla guerra del Vietnam ed ultimo Eyes Wide Shut ispirato alla novella di Schnitzler Doppio sogno.
Dalla fine degli anni Cinquanta all'inizio degli anni Novanta, Kubrick ha occupato un posto di rilievo nella cinematografia mondiale: la sua produzione, numericamente non elevatissima ma di alto livello formale, si è imposta con una forza morale tale da restare immune al passare del tempo.

Mariarita Nigro

gli articoli del numero di aprile online #1



l Tutto, il Nulla e l’Humanus: l’eredità di Pascoli a 100 anni dalla sua morte

Il 6 aprile 1912 Giovanni Pascoli moriva. Sono passati 100 anni da quel giorno, ma la sua poesia non ha mai smesso di parlare, «sussurrare» nuove trame e indicarci nuovi sentieri in quel «grande Tempio» che è la natura, ma anche e soprattutto la vita dell’uomo.
Volendo qui ricordare qualcosa di lui, inevitabilmente non si potrà dire tutto, perché dire tutto vorrebbe dire nulla. E allora ho scelto di soffermarmi proprio sul Nulla, su quell’esistenza che emerge nei Conviviali, o meglio, è sommersa dal gran mare del «non essere, non essere più».
Tra tutte le storie dei Conviviali − all’interno di quel lungo svolgimento del filo del mito, una trama che corre dall’antichità greca fino agli albori dell’era cristiana − cercando di restringere ancora l’obiettivo, la mia attenzione cade sull’Ultimo viaggio di Ulisse, un epos che in quel Tutto che sa di viaggio, amore, gloria e verità, inserisce proprio il dramma del Nulla.
Pascoli riscrive l’Odissea omerica, ripercorre quei 24 libri nei 24 canti, ma il suo nostos non è un ritorno alla vita: è un viaggio verso la morte. L’Odisseo pascoliano (rigorosamente chiamato con il nome greco) è un non-eroe novecentesco, un uomo senza più storia, smarrito nei meandri del tempo, sospeso tra un presente che non ha più il passato. Come è arrivato a Itaca, come è ritornato alla sua patria? Era vero ciò che di lui avevano cantato gli aedi? Tutto è indefinito, le domande non trovano più risposte, fino al grande silenzio delle sirene.
Nemmeno la profezia di Tiresia ha più il sapore della sentenza ineluttabile: Odisseo non si fermerà per sempre, non morirà come un comune uomo attivo, ma sarà l’uomo contemplativo, quello che, come Rachele della Digitale purpurea, farà esperienza della morte. Continuo è quel refrain epico «E per nove anni» che apre ben 3 canti (V, VI, VIII), fino al momento della decisione, fino all’incontro con l’aedo Femio che lo accompagna in questo viaggio a ritroso.
Come erano stati questi nove anni a Itaca? Erano trascorsi con la solita monotonia delle cose umane, mentre quelle gru − le stesse che in In cammino ricordano all’homo viator che è tempo di ripartire − sfidavano il mare e deridevano la condizione di Odisseo che «al focolar sedeva». Rileggendo i versi de Il ramo confitto, è facile scorgere in controluce quel «Re neghittoso» di Tennyson (non a caso tradotto da Pascoli) che non riesce «alla vampa del mio focolare tranquillo / star, con antica consorte, tra sterili rocce», annoiato dalla «selvaggia gente che ammucchia, che dorme, che mangia e che non mi conosce».
Nasce così il desiderio di partire perché «sonno è la vita quando è già vissuta: / sonno; ché ciò che non è tutto, è nulla» (X, La conchiglia, vv. 31-32), e «or io mi voglio rituffar nel sonno, / s’io trovi in fondo dell’oblio quel sogno» (ivi, vv. 37-38). Il passato è dunque un sogno dai contorni indefiniti, un torpore che terminerà soltanto con il risveglio della morte.
E Odisseo, avanzando nel mare dell’esistenza, vede cadere leopardianamente tutte le illusioni della sua vita. Si incomincia da quella più dolce, l’amore, che «destato solo allor ti muore» (XVII. L’amore, v.34), con l’assenza di Circe e la morte di Femio/poesia, perché nulla può ormai consolare, nemmeno il canto. E si continua con la scoperta che nessuno (con grande ambiguità semantica) accecò mai Polifemo, perché tutto fu soltanto una leggenda: «Al monte? L’occhio? Trivellò? Nessuno» (v.45).
E il pathos cresce fino alle sirene che qui Pascoli recupera nella veste di arcane depositarie della verità perché «Il mio sogno non era altro che sogno; / e vento e fumo. Ma sol buono è vero» (XXI, Le sirene, vv. 15-16). E quel vero viene urlato, viene chiesto a quelle donne/sfingi con le sembianze di uno scoglio, perché Odisseo che sa di morire ha quel dubbio che nessuno potrà mai risolvere: «Ditemi almeno chi sono io! Chi ero!» (XXXIII, Il vero, v. 54). E su questo finale si innalza «l’ululato» della Nasconditrice Calypso, l’unica capace di svelare una verità che nessuno potrà/vorrà mai ascoltare: «Non esser mai! Non esser mai! Più nulla, / ma meno morte, che non esser più!» (XXIV, Calypso, vv. 52-53): meglio per l’uomo non nascere affatto, piuttosto che sapere di morire. Lei che aveva offerto l’eternità all’uomo che amava, ne piange e commisera ora la morte, intrappolandolo nell’ombra scura dei suoi capelli.
Quel grido di verità sarà risolto da un altro eroe, che, nonostante la storicità, gareggia nel mito al fianco di Odisseo: Alexandros. Anche lui esploratore fino ai limiti delle possibilità umane, una volta giunto agli estremi confini, voltandosi indietro dirà: «Il sogno è l’infinita ombra del vero» (v.10). Era meglio non partire perché la fine è il Niente, meglio continuare a sognare, come faceva quel fanciullo di Leopardi davanti al mappamondo, immaginando terre lontane.
Il Tutto si assimila al Niente e tra le righe Pascoli dialoga col pessimismo leopardiano del pastore che parla agli astri, in un «chiacchiericcio» che approda all’unica verità: «Gli uomini amarono più le tenebre che la luce», l’uomo è mortale e la consapevolezza del suo Nulla diventa il Tutto del suo essere humanus.

Pamela Di Mambro