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lunedì 28 maggio 2012
lunedì 21 maggio 2012
gli articoli del numero di aprile online # copertina, editoriale, cit. del mese
Vox Studenti, aprile 2012
Un
giorno questo inutile
ti sarà utile.
C'è
un libro di Peter Cameron, pubblicato da Adelphi (da cui hanno tratto
anche un film) che si intitola Un
giorno questo dolore ti sarà utile,
ecco: in questa sede non mi interessa nulla né del contenuto del
film, né di quello del libro, né di Cameron.
Mi
interessa il titolo, o meglio mi torna utile riprenderlo come più mi
aggrada, e cioè in questo modo: un
giorno questo inutile ti sarà utile.
Cos'è?
Forse una legge suprema, la legge suprema del giovane italiano sotto
i trent'anni (e forse non solo).
Bene,
cosa vuol dire tutto questo? Vuol dire cercare di convincersi che
tutto l'inutile che svolgiamo (scrivere; organizzare; contattare;
intervistare; chiedere per sapere; portare avanti un giornale
universitario senza fondi; cercare di vendere biglietti per un'ottima
rassegna di teatro civile e
altro),
ben consapevoli del baratro che abbiamo di fronte, continuare a fare
il proprio dovere (in sintesi né più né meno che quello) tenendo
conto della relazione che esiste tra impegno e guadagno, continuare a
sapere dentro di noi: un
giorno tutto questo inutile ci sarà utile.
Un
giorno tutte queste inutilità ci serviranno. Un giorno sarà servita
anche l'esperienza di Vox Studenti a tutti noi? Un giorno sarà
servito scontrarsi con mille dubbi e problemi che non facevano
strettamente parte dei nostri doveri di studente. E un giorno tutta
la nostra fatica sui libri ci sarà utile. Ricordiamocelo.
Suvvia, quella è utile: lo sappiamo!
È utile a prescindere. Mai
dimenticarlo. Noi ci crediamo, ancora. Voi? Sì, che ci credete. C'è
poco da deprimersi, ragazzi, una volta svegli dal lungo sonno del
3+2, no? Deprimiamoci durante, allora. Senza lagnarsi, ci si deprima.
Deprimiamoci, svegliamoci ogni mattina coi dubbi e guardiamoli in
faccia uno ad uno; la scadenza della presentazione del piano di studi
segnamola a margine di un foglio scrauso da mettere in agenda: nella
testa lasciamo le informazioni più utili: il sapere che sta entrando
e deve entrare e restare, le nozioni che il tempo filtrerà e
resteranno la nostra cultura e la nostra formazione e l'attività di
studenti.
Professione: studente. È una professione. L'esame non è
un'intervista a punti. Svegliamoci, tutti. Questi sono gli anni in
cui star svegli, il sonno arriverà. Sono gli anni del rischio
dell'impresa, sono gli anni del 'c'ho provato' e passano in fretta e
di colpo, «prima a poco, a poco, poi all'improvviso»: ti ritrovi un
gradino più in alto e non ti è più permesso rischiare; o: provare
tanto per provare. Gli anni dell'università sono gli anni in cui si
decide chi diventare nella vita, c'è poco da girarci attorno: è
così.
Non si sputa addosso alla cultura, alla formazione, non si
sputa sopra la propria formazione e non si danno colpe gratuite a
nessuno, a noi stessi, sì: facciamolo. Ogni tanto fa bene.
Incolpiamoci, processiamoci.
Tutti
lo sapevamo che era difficile la strada davanti a noi, tutti sappiamo
quanti insegnanti ci sono in giro, quanti a spasso. Lo sapevamo
benissimo, e lo sappiamo tuttora che fondamentalmente il mondo d'oggi
ha davvero bisogno di poco e manca di tutto, che abbiamo il tasso di
disoccupazione giovanile al 31,9% e che siamo nel bel mezzo della
crisi e di una tangentopoli senza nome. (olé, il profumo della vita
è evaporato insieme a chi ha sceneggiato Amarcord e viene ricordato
per un'insulsa pubblicità? No, o non del tutto. Che cos'è il tutto?
Pretenzioso. No?)
Il
periodo non è roseo, e Vox Studenti forse, pensate un po': uscirà
in bianco e nero: sciocchezza, questa? Certo, ma in fondo è
perfettamente in linea coi tempi. Il colore costa e forse non
possiamo permettercelo più.
Se
invece c'è una cosa che non è in linea coi tempi ma è un
evergreen, un buon classico da tirar fuori quando serve, quella cosa
è la mente, eh: usiamola. Sapete tutto quelle cose tipo: «il
cervello è come un paracadute funziona solo quando si apre?».
(Apritelo il cervello, in tempi di crisi. Cerchiamo di aprirlo, è
l'unica risorsa che non può toglierci nessuno).
Oppure,
segnatevi questa, questa è bella:
«La
missione di ogni uomo consiste nell’essere una forza della natura e
non un grumo agitato di guai e di rancori che recrimina perché
l’universo non si dedica a renderlo felice» G.B.S.
Quante
volte siamo un grumo agitato di guai e rancori? E quante volte diamo
all'universo – intero, eh: sì, tutto, proprio tutto – colpe
che non ha? Quante volte chi fa qualcosa nella vita, e qualcosa in
cui crede, si trova di fronte a uno specchio che riflette tutto
l'apparente inutile
e tutto il lavoro invisibile in eccedenza rispetto al guadagno che
quel lavoro gli ha dato? Quante? Molte. Una marea di persone fanno i
conti con tutto l'inutile – in tempo di crisi moltiplicatosi in
maniera esagerata – che ruba tempo, energie e quella cosa che un
tempo si chiamava 'entusiasmo'. Bella cosa l'entusiasmo, in tempi di
crisi costa più della benzina che pure è arrivata a prezzi
esagerati.
Ne
avevo, di entusiasmo, quando ho iniziato. Ero l'entusiasmo fatto
persona, poi forse ho perso entusiasmo e sono diventata più persona,
si diventa adulti e a volte è tutt'altro che entusiasmante. (Gianni,
tu e il tuo ottimismo, dove siete? Chiede
labile una voce fuori campo).
L'entusiasmo,
l'inutile, l'utile. E il dilettevole? (Che poi come ci si può
divertire con un parola così vecchia e inutile? L'inutile
'dilettevole'). Vox Studenti è divertente? Dilettevole? Sì: se si
ha uno scopo si prova diletto, è notorio (diletto, invece, è parola
bellissima). E noi, penso, uno scopo ce l'abbiamo ancora. Noi di Vox,
noi studenti, noi italiani sotto i trent'anni. Noi, tutti.
Ma
anche Vox Studenti è un 'inutile', eh! Credetemi: è quanto di più
inutile possa esistere (ah, lo sapete, ah: ok). Oh, noi che ci
scriviamo, io e questi altri matti della nuova compagnia Vox Studenti
(una specie di Compagnia
delle Indie,
ma
con molto poco da commerciare) lo sappiamo benissimo e qualche volta
forse lo pensiamo: un
giorno tutto questo Vox Studenti ci sarà utile? Perché
non molliamo tutto e nelle pause studio non ci divertiamo e basta?
Perché
non studiamo e poi ci concediamo tanta calma invece di affannarci a
fare banchetti (e non dico stravizzi,
naturalmente); perché ci ostiniamo a bombardare le mail del resto
della redazione per ricordare scadenze/cosedafare/cosedarileggereper?
Calma.
La calma.
Ci
sono periodi in cui non esiste, o forse ci sono periodi in cui per
restare calmi bisogna restare in equilibrio sopra la frenesia, questo
è. Sì, va beh, sarà la solita influenza di Vasco Rossi ma non si
tratta di follia (il suo era «equilibrio sopra la follia», ndr),
solo di pura odiosa frenesia (Vasco che tra le altre cose sembra
entrato di forza anche nei titoli in libreria: Cosa
succede in città,
di Santarossa, e Solo
colpa d'Alfredo,
uscito per Cairo Editore).
Parentesi.
Una delle tante. Finestra. Una delle tante.
Aperte, ora: altra finestra: senti Francesco che ti sta
mandando i suggerimenti di lettura per la rubrica (a fine Vox a p. 12
li trovate, e sono belli anche questi, e sono contenta); trova il
tempo di rispondere a una mail importante (le mail importanti aprono
gli occhi); cerca di finire l'articolo sulla rassegna di teatro
civile perché così non è articolo (perché così non è); riprendi
in mano la Moleskine rossa e ritaglia via tutte le cose lasciate in
sospeso e mettiti a studiare, e tutto il resto, tutto quello che non
è studio: un
giorno, forse, anche tutto questo inutile ti (ci/vi) sarà utile. Lo
so, lo so che è così.
(o
forse no?).
Non
è un editoriale, è un editoriale in tempi di crisi di un italiano
ventenne che studia, vede un futuro in bianco e nero e dice: cercherò
di colorarlo. E proveremo a farlo anche in questo Vox Studenti più
pezzente del solito: il vostro Vox
Pezzenti in b/n.
Forse
non sarà possibile ma ci proveremo. Se non sarà possibile vuol dire
che era impossibile. Punto. Tutto, dico. I colori, il bianco e nero,
Vox, il futuro. (Che poi il b/n è elegantissimo).
Affamati?
Folli? Siate, anche, molto pratici. Siamo in crisi, per favore. C'è
poco da girarci intorno. Che sia una mente pratica la nostra, in
tempi di crisi, praticamente.
Tamara
Baris
gli articoli del numero di aprile online #10
Dead
Kennedys: la faccia
“cattiva” del punk.
Nella
musica è un po’ come nella letteratura, si tende sempre a
“periodizzare” le epoche e a creare dei confini ideali in cui
poter collocare gli artisti. Una comoda sistemazione da manuale, ma
difficile da attuare in casi, come quello dei Dead
Kennedys,
in cui le sperimentazioni e l’accumulazione di generi diversi
impediscono una collocazione coerente. In fondo sono le sfumature
delle trasformazioni musicali che rendono questa band californiana
una delle più alternative nel panorama del punk. Si, ma loro sono il
volto oscuro del punk: la deriva hardcore o, come preferisce Jello
Biafra, la nascita del new wave. Siamo nei mitici anni ’80, nel
meglio della gioventù punk, quando questi anarcoidi ragazzotti di
San. Francisco irrompono sulla scena musicale. Nel loro sound c’è
tutta la violenza e la rabbia di quegli anni, della controversa
politica militare degli Stati Uniti, delle nuove frontiere umane: una
summa di istanze sociali non indifferenti. La trasposizione, o
meglio, la traduzione sonora è composta da suoni veloci e sequenze
di riff
improvvise
ed inaspettate. I Dead
Kennedys si
propongono al grande pubblico davvero in pompa magna: con un nome
provocatorio a dir poco per i supernazionalisti statunitensi e con la
copertina del primo disco ufficiale, Fresh
Fruit For Rotting Vegetables,
in cui c’è un ovvio riferimento alle White
Night Riots.
Difficile da vendere un prodotto ideologicamente sconveniente, eppure
la sostanza musicale non mancava affatto. Se ne accorsero per primi
gli inglesi, ormai più vicini storicamente al momento d’esaurimento
della parabola del punk. E strano a dirsi, proprio Kill
the poor sembra
la parodia del genere britannico, fantastico! Sicuramente l’idea
malsana del rock e del punk rimase uno dei motivi di riconoscimento
del loro marchio musicale, ma le sperimentazioni sonore portarono la
band ai confini con l’hardcore, in un territorio ancora da
conoscere. Il meglio della produzione dei Dead
Kennedys è
tuttavia rintracciabile in due canzoni-manifesto, uscite nello stesso
disco: Holiday
in Cambodia e
California
Über Alles.
La prima è un chiarissimo rifiuto delle dittature, con riferimento
al regime di Pol Pot e alla guerra sociale in Cambogia, e la seconda
è la proclamazione dell’antifascismo, attraverso un duro attacco
all’allora governatore della California, Jerry Brown. La storia
prosegue e le provocazioni si acuiscono. Con In
God We Trust. Inc.,
la band è costretta a fondare una propria casa discografica per
vendere il disco a causa di incompatibilità con la precedente. E
come poteva non essere motivo di discordia l’immagine di Cristo
crocifisso su allettanti pacchi di dollaroni? Doveva immaginarlo il
vecchio produttore che il simbolo di Cristo sarebbe divenuto uno
degli stilemi più riconoscibili e comunicativi del punk-rock.
Intanto nel novembre del 1982 esce il terzo album, Plastic
Surgery Disasters,
e nell’ottobre del 1985 esce Frankenchrist.
La
strada verso la fine è ormai iniziata, nonostante la brillante
ripresa con Badtime
for Democracy,
perché le esasperazioni ideologiche e musicali iniziano a far
crollare i consensi. I Dead
Kennedys
diventano ben presto l’emblema della musica deviata, con i suoi
numerosi richiami a membri genitali, parolacce, uso di droghe e
violenza. Inoltre la continua critica alla politica corrotta inizia a
generare un sentimento malsano di antipolitica che spesso li associa
a movimenti anarco-insurrezionalisti e li accusa di attacchi politici
troppo gratuiti. In realtà, ciò che aveva esaurito il suo raggio
d’azione non erano di certo le traduzioni e i contenuti delle
canzoni, ma forse il sound ancora acerbo del proto-hardcore, ancora
incompreso, e delle continue sperimentazioni musicali, fatte di
contaminazioni e riprese che vanno dal rock al country. Soltanto
negli ultimi anni si è riscoperta la portata musicale di questi
figli della rabbia, dopo la pubblicazione di un dvd con i concerti
dal vivo della band. Forse un po’ di sano rancore ci servirebbe per
riscattare la nostra memoria e rivendicare i nostri diritti, invece
di sentire l’improponibile inquinamento acustico propostoci da tv e
radio di recente. La musica deve permetterci di coltivare
l’intelligenza, sempre.
Virginia
Machera
gli articoli del numero di aprile online #9
MA,
DIVERSAMENTE ABILE A
CHI?
Handicappato,
disabile o
diversamente abile?
Qual è la definizione meno offensiva, qual è la parola meno
discriminante? La mia risposta, ormai da molti anni, al quesito che
ha impegnato giuristi e linguisti e che di sovente ricorre sulla
bocca degli idioti non può che essere una soltanto. Innanzitutto le
parole, così come le conosciamo nel loro uso comune, hanno un colore
semantico neutro. Sono gli utenti ed i parlanti a connotarle di un
significato, associando ad esse un’idea. Appurato velocemente
questo dato, è facile dedurre che nessuna delle tre parole è
portatrice a priori di un significato che possa ledere la sensibilità
altrui o che possa discriminare qualcuno. Tuttavia associazioni, enti
e organizzazioni no profit si affannano nel ricercare sempre nuove
definizioni che siano meno sgradevoli e offensive: una vera corsa
all’eufemismo. (La rabbia e la tristezza sono lecite a questo
punto). Viviamo in una società in cui l’uomo mostra, a tratti,
ancora i segni della sua natura, altro che “contratto sociale”!
Vince il più forte ed il più debole soccombe all’indifferenza.
Nel moderno villaggio globale, in cui ciò che conta è
l’omologazione alla massa ed alla maggioranza, la diversità è
sentita come segno di debolezza, di vergogna. L’uomo è sempre più
attanagliato da un senso di competizione, di gloria, da un’ansia di
arrivare, di correre, come insegnano Grande Fratello, Amici, L’isola
dei Famosi e simili balordaggini. Non c’è più la cultura della
solidarietà, dell’identità, del riconoscimento dell’altro; si è
quotidianamente impegnati in processi di esclusione dei più deboli,
dei diversi. Ma cosa può significare allora diversamente
abile? Nulla. Tutti
siamo diversamente abili nelle nostre potenzialità: c’è chi sa
dipingere, chi sa risolvere problemi matematici, chi sa ballare. Noi
tutti abbiamo delle disabilità proprio in virtù della nostra natura
imperfetta di essere umano. Eppure nessuno di noi è chiamato
disabile
se ha entrambe le gambe, se ci vede bene, se non ha un ritardo
cognitivo, se non balbetta, se non ha subito un’operazione al
cuore, perché nessuno di noi si sognerebbe mai di “definire”
l’altro in base ad una sua disabilità o abilità. È la totalità
delle nostre capacità che ci definisce e non la mancanza di
qualcosa. L’uomo non è fatto soltanto di vista, di gambe, di
braccia, di cervello o di cuore. L’identità di essere umano va ben
oltre queste attenuanti, l’essere una persona basta e avanza.
Finché non si capirà che l’uomo è persona in quanto tale per i
rapporti che intreccia con la società, per la somma delle sue
diversità, per il suo bagaglio genetico e per i suoi numerosi
talenti, non ci saranno mai termini adatti e meno offensivi per
definirlo. E poi non c’è bisogno di classificare la diversità,
non c’è bisogno di etichettare le abilità o di definire qualcuno
attraverso una parte del “tutto”. Sono le intenzioni e gli
atteggiamenti a monte di poter e dover creare dei gruppi sociali che
creano discriminazione ed isolamento. Non sarebbe offensiva la parola
negro se
si comprendesse che il colore della pelle è una diversità genetica
e non una differenza sociale e che non sono necessari strumenti di
misura dell’uguaglianza, se uguaglianza c’è. Il punto, a mio
avviso, è che l’altro
fa paura e che dai suoi istinti di sopraffazione e di prevaricazione
del più debole l’uomo in fondo non si è mai emancipato del tutto.
E la ricerca affannosa di parole e definizioni più adatte alla
diversità non è che l’occultamento di una mancanza di educazione
alla solidarietà e alla tolleranza o forse la necessità inconscia
di espiare difronte a chissà quale Dio le proprie colpe, di
esorcizzare le proprie paure. Ad essere solidali si comincia dalle
piccole cose, non servono donazioni esose, non serve pubblicare su
facebook foto dell’azione cattolica in pompa magna o fare la
pubblicità della Fabbrica del Sorriso come fa la Marcuzzi, dicendo
che i bambini disabili sono bambini con una “d” in più
(purtroppo Alessia non sa che non esistono bambini disabili, ma solo
bambini, e che l’identità di ognuno di essi non sta di certo nella
mancanza di una gamba o nella presenza di qualche malattia). Serve
più educazione al rispetto ed alla tolleranza, più solidarietà. Si
cominci dalle scuole, dalle famiglie, dalle chiese. Si cominci col
dire che noi rifiutiamo questa cultura della paura del diverso,
dell’extracomunitario, del terrorista, del nero, del tossico, del
napoletano o del gay, diffusa da una comunicazione mass-mediatica
ignorante, destroide e corrotta. Si cominci col ribadire che SIAMO
TUTTI DIVERSAMENTE ABILI e tutti abbiamo un nome e cognome,
sufficienti per dire chi siamo.
Virginia
Machera
gli articoli del numero di aprile online #8
IL TFA: ALCUNE
INFORMAZIONI TECNICHE
Nonostante
il numero dei posti sia decisamente superiore ai fabbisogni reali
(elemento che, ripeto, aumenterà le illusioni nei giovani), si
ritiene opportuno illustrare alcuni aspetti tecnici in merito
all’imminente partenza del TFA (da indiscrezioni sembra che il
bando possa essere emanato nelle prossime settimane).
MODALITA’
DI ACCESSO E COSTI
Al TFA
si accede attraverso una procedura concorsuale a numero chiuso
costituita da tre prove. La prima prova è un test preliminare
a risposta chiusa (quattro opzioni di risposta per ogni domanda) di
contenuto identico su tutto il territorio nazionale (destinato
a svolgersi, per ogni classe di concorso, nel medesimo giorno in
tutti gli atenei). Il test, predisposto dal MIUR, prevede la
somministrazione di sessanta domande in tre ore: ogni risposta
corretta vale 0,5 punti, ogni risposta non data o errata vale 0
punti. Il punteggio massimo raggiungibile è uguale a 30 punti: per
essere ammessi alla seconda prova occorre conseguire un punteggio
uguale o superiore a 21/30, ovvero rispondere correttamente ad almeno
42 domande su 60 (il 70% dei quesiti).
Di
queste sessanta domande dieci sono dedicate alla lingua italiana e
alla comprensione dei testi (per tutte le classi di concorso); le
altre cinquanta vertono sui contenuti disciplinari specifici.
La
seconda prova, anch’essa scritta, è organizzata
autonomamente dai singoli atenei: domande a risposta aperta, analisi
del testo, traduzioni dal greco e dal latino (o dalle lingue
moderne), dimostrazioni o esercizi di vario tipo a seconda della
disciplina per cui si concorre. Per essere ammessi alla terza prova
occorre conseguire un punteggio uguale o superiore a 21/30 nella
singola prova.
L’ultima
prova, anch’essa a cura dei singoli atenei, è orale: per
superarla occorre raggiungere un punteggio pari o superiore a 15/20.
La graduatoria finale degli ammessi al tirocinio formativo attivo è
costituita sommando il punteggio delle prove (da un minimo di 57/80
ad un massimo di 80/80) con il punteggio titoli (voto di laurea,
media esami, eventuale servizio prestato, altri titoli).
Secondo
le ultime informazioni disponibili le
prove di accesso potrebbero costare 30 euro, mentre l’intero
percorso potrebbe avere un costo simile a quello delle SSIS (1500 –
2000 euro). Ovviamente questo dato dimostra l’interesse degli
atenei per l’aumento dei posti da bandire.
ATTIVITA’
DEL TFA
Il TFA
è un corso universitario annuale che prevede attività per un totale
di 60cfu:
- 18 cfu di didattica e pedagogia speciale (elementi base della didattica e della pedagogia);
- 18 cfu di didattica disciplinare e laboratorio (attività fondamentali se collegate con la pratica didattica osservata e attuata durante il tirocinio a scuola);
- 19 cfu di tirocinio, ovvero 475 ore a scuola, di cui 75 dedicate ad alunni diversamente abili;
- 5 cfu di tesi e relazione finale.
LA DISPONIBILITA’ DEI POSTI
Secondo quanto previsto dal DM 14 marzo 2012 n. 31, l’Università
di Cassino ha ottenuto la seguente disponibilità di posti:
- 30 posti classe di concorso A043 (Italiano, storia e geografia nella scuola secondaria di I grado);
- 10 posti classi A245 – A345 – A445 – A545 (lingue straniere scuola secondaria I grado);
- 20 posti classe A029 (Educazione fisica nelle scuole secondarie di II grado);
- 10 posti classe A036 (Filosofia, psicologia e scienze dell’educazione);
- 20 posti classe A037 (Filosofia e Storia);
- 10 posti classe A039 (Geografia);
- 30 posti classe A050 (Materie letterarie negli istituti di istruzione di II grado);
- 30 posti classe A051 (Materie letterarie e latin nei licei e negli istituti magistrali);
- 30 posti classe A052 (Materie letterarie, latino e greco nel liceo classico);
- 10 posti classe A061 (Storia dell’arte);
- 30 posti classe A246 (lingua e civiltà francese – scuola secondaria di II grado);
- 30 posti classe A346 (lingua e civiltà inglese – scuola secondaria di II grado);
- 10 posti classe A446 (lingua e civiltà spagnola – scuola secondaria di II grado);
- 10 posti classe A546 (lingua e civiltà tedesca – scuola secondaria di II grado);
- 15 posti classe A646 (lingua e civiltà russa – scuola secondaria di II grado).
E
DOPO L’ABILITAZIONE?
Con il
TFA si consegue l’abilitazione all’insegnamento nella scuola
secondaria di I e II grado: ora il titolo abilitante consente
l’iscrizione nelle graduatorie per le supplenze presenti in ogni
singola scuola (le graduatorie d’istituto), in subordine rispetto
agli insegnanti precari iscritti nelle graduatorie provinciali
gestite dai provveditorati (iscritti in prima fascia, mentre i nuovi
abilitati andranno in seconda fascia; chi non è abilitato è
iscritto in terza fascia).
L’abilitazione
all’insegnamento può essere utilizzata nella scuola paritaria,
secondo quanto prevede la legge 62/2000 (in molti casi questa
normativa viene disattesa dalle scuole paritarie in nome della”
libertà di scelta”). A normativa vigente il titolo abilitante è,
inoltre, requisito necessario per poter partecipare ai concorsi a
cattedra che, a detta del ministro Profumo, torneranno ad essere
attuate nei prossimi anni, sempre che siano disponibili posti in
organico (la riforma Fornero determinerà la riduzione dei
pensionamenti del personale della scuola per i prossimi 6-9 anni).
La
materia del reclutamento è, purtroppo, ostaggio di forze politiche
orientate alla ricerca del consenso di questo o quel gruppo: la
speranza è che la politica possa prendere una decisione definitiva
sulla materia, dando a TUTTI, neoabilitati, sissini, precari storici,
la possibilità di puntare all’immissione in ruolo attraverso
procedure della massima trasparenza, evitando ogni forma di sanatoria
e di favoritismo (i cosiddetti concorsi di istituto, tecnicamente
orientabili verso la chiamata diretta da parte dei dirigenti, scelta
completamente discrezionale e contraria ad ogni principio
meritocratico).
Per
ogni informazione sono disponibile o su Facebook (Enrico Maria
Polizzano) oppure al seguente indirizzo di posta elettronica:
enrico8322@gmail.com
Alcuni
riflessioni sui numeri e
sulle
eccessive aspettative degli insegnanti
TFA:
FABBISOGNI GONFIATI E NUOVE ILLUSIONI PER I GIOVANI
Il
colpo di scena è arrivato venerdì 2 marzo, quando sul sito del MIUR
è comparso un comunicato stampa relativo ai fabbisogni dei percorsi
di TFA: 4275 posti per le scuole secondarie di primo grado, 15792 per
le scuole secondarie di secondo grado, per un totale di 20067 posti.
Nel comunicato è presente anche la ripartizione regionale di questi
posti: si va dai 279 posti del Friuli Venezia Giulia agli oltre 3000
della regione Lazio.
Questo
primo documento è stato seguito, due settimane dopo, dal decreto
ministeriale n. 31, che riporta la suddivisione e la ripartizione dei
posti negli atenei. Nel decreto un dato appare nettamente in
contraddizione con quanto previsto dal regolamento ministeriale sulla
formazione iniziale elaborato nel corso del dicastero Gelmini: la
stima dei pensionamenti previsti (poco più di 10000 unità tra
scuole medie e superiori) è stata maggiorata nel limite del 30% in
relazione, così come scritto nel DM, non al fabbisogno dell’intero
sistema di istruzione nazionale, bensì tenendo conto dei
“pensionamenti”. Fuori dai tecnicismi, che cosa significa tutto
questo?
L’articolo
5 del DM 249/2010, ossia del regolamento ministeriale Gelmini,
prevede che il numero dei posti sia bandito tenendo conto dei
fabbisogni delle scuole statali maggiorato del 30% in relazione alle
esigenze dell’intero sistema nazionale di istruzione (che comprende
le scuole paritarie) e dell’offerta formativa degli atenei. Questa
disposizione normativa non collega direttamente i posti messi in
palio per il conseguimento dell’abilitazione alle cattedre
fisicamente presenti, ma aumenta a dismisura il numero dei posti da
bandire.
Passando
ai numeri, un particolare emerge chiaramente: diversamente dalle
SSIS, che prevedevano l’attivazione di un solo percorso abilitante
in ogni singola regione, i posti del TFA sono stati ripartiti tra
quasi tutti gli atenei regionali. Il calcolo dell’entità dei posti
disponibili risulta, per alcune discipline (classi di concorso),
assolutamente spropositato rispetto ai posti effettivamente a
disposizione: per alcune materie colpite duramente dai tagli della
riforma Gelmini e dal calo di iscrizioni il MIUR ha previsto
l’attivazione di una valanga di posti. Due esempi possono aiutare a
chiarire la situazione: per la classe di concorso A017 (economia
aziendale – scuola superiore) il cui organico risulta in ESUBERO a
livello nazionale (con la possibilità che docenti di ruolo, privi
ormai della cattedra, possano essere messi in mobilità e LICENZIATI
se non ricollocati su altre discipline), sono stati banditi 610 posti
a livello nazionale; alla A052 (latino e greco nel liceo classico),
materia colpita da esuberi di docenti a tempo indeterminato in quasi
tutte le province italiane, il MIUR ha assegnato 750 posti!
La
situazione è davvero paradossale: la responsabilità di una
suddivisione ESAGERATA e IRRAZIONALE dei posti si deve
attribuire ai Comitati regionali di coordinamento che, invece di
tenere conto dei posti fisicamente disponibili (dati facilmente
ricavabili dall’amministrazione), hanno preferito seguire le
richieste accademiche, con l’inevitabile conseguenza di creare
ULTERIORI ILLUSIONI nei neoabilitati.
Si
potrebbe obiettare che 20000 posti non sono tanti rispetto ai 10000
mediamente banditi ogni anno dalle SSIS: il problema, in realtà, è
che in questi quattro anni di sospensione di ogni forma abilitante si
è verificato il taglio di 90000 posti in organico (dati recenti
dimostrano che la riduzione dei posti rispetto all’a.s. 2008-2009 è
pari a 130000 posti, tenendo conto anche delle supplenze brevi,
diminuite in maniera sensibile) in seguito alla riforma ordinamentale
attuata dal ministro Gelmini.
Un’altra
possibile obiezione alla mia tesi sarebbe che conseguire
l’abilitazione non implica, automaticamente, il raggiungimento del
posto fisso (tesi sostenuta nell’Appello ai Giovani,
documento sottoscritto nell’estate 2011 per richiedere
l’attivazione del TFA con un numero di posti decisamente superiore
al fabbisogno della scuola statale).
Vorrei
soltanto ricordare a tutti coloro che hanno sottoscritto l’Appello
ai Giovani e che sono giunti ad avanzare notevoli pressioni
politiche (culminate, nell’agosto 2011, con un incontro a Palazzo
Chigi interno all’allora maggioranza parlamentare del PDL), che gli
insegnanti non sono una categoria professionale come gli avvocati,
non sono liberi professionisti. Tutti gli insegnanti precari (sia
chi lavora nella scuola statale sia chi presta servizio nelle scuole
paritarie) PRETENDONO di essere assunti nella scuola statale
in virtù del servizio prestato: a mio avviso sarebbe opportuno, per
realizzare questa legittima aspettativa, avviare concorsi a cattedra
basati sui posti effettivamente disponibili, con numeri chiari,
evitando ogni forma di “chiamata diretta” così come evocato da
una recente proposta della giunta regionale lombarda.
Per
tutti questi motivi non posso che dissociarmi apertamente da tutta la
retorica dell’APPELLO AI GIOVANI, da chi sostiene che i precari
della scuola attualmente in servizio siano stati assunti con
sanatorie e scorciatoie: molti puntano a raggiungere il posto nella
scuola statale non perché vogliono insegnare davvero qualcosa
ai ragazzi, dare loro un esempio di serietà, di professionalità, di
merito, di doveri e diritti, bensì per ottenere soltanto una
sicurezza economica, una stabilità lavorativa fregandosene del ruolo
di educatori. La mentalità piccolo – borghese, secondo cui tutti
devono entrare nella Pubblica Amministrazione, in qualsiasi modo,
continua a riprodursi e ad illudere i giovani, vittime di un sistema
che non è stato scalfito nemmeno dagli intenti riformatori del
ministro Gelmini, assolutamente disattesi ed esplicatisi soltanto in
una scriteriata politica di tagli.
Enrico Maria Polizzano
gli articoli del numero di aprile online #7
La
bufera giudiziaria che si è abbattuta sulla Lega Nord, da qualche
tempo a questa parte, oltre ad evidenziare ancora una volta -
l'ennesima - il pessimo stato di salute in cui versano i partiti
politici nostrani offre, se non altro, l'occasione di tentare una
riflessione più approfondita riguardo ai fattori che hanno portato
un movimento tanto controverso ed ambiguo a divenire un partito ben
radicato nella società in virtù di un consenso via via crescente,
al punto di arrivare ad essere un partito di governo a livello
locale, prima, e regionale, ma soprattutto nazionale, poi.
Non esiste, né forse è mai esistito, in Italia, un partito di governo - è bene ribadirlo - più populista della Lega Nord. Affermazione che, inevitabilmente, richiede un chiarimento circa la definizione di "populismo".
Parola ormai d'abuso comune, quantomeno nel lessico politico, spesso erroneamente utilizzata come sinonimo di "demagogia" - a cui spesso si accompagna e di cui la Lega ha fatto un uso smodato - , deve il suo fascino alle suggestioni ch'è in grado di evocare.
Populismo è un sistema in cui tra il capo ed il "suo" popolo intercorre un rapporto diretto, privo di alcuna mediazione: da esso deriva un potere esercitato senza troppi vincoli o controlli quali possono esser considerate le pastoie di leggi ritenute eccessivamente coartanti e che finiscano dunque per incrinare il legame genuino, quasi paterno, tra il leader ed il suo seguito indifferenziato; conferito senza seguire procedure eccessivamente complicate, con forme quasi plebiscitarie.
Un "potere carismatico", quindi, volendo fare riferimento alla classificazione dei poteri legittimi messa a punto dal sociologo tedesco Max Weber: potere che poggia "sulla dedizione straordinaria al valore esemplare o alla forza eroica o al carattere sacro di una persona" e degli ordinamenti che questa ha creato.
Basti pensare allo straordinario grado di sostegno, quasi incondizionato, che Bossi ha saputo conservare nel bel mezzo della recente disfatta per comprendere come le capacità di captazione del consenso della Lega trascendano la dimensione meramente politica.
Come in ogni populismo ricollegabile all'area delle destre che si rispetti, essa ha saputo portare avanti un discorso xenofobo ed autonomista - non privo di ipocrisie; vedasi le velleità secessionistiche da ritenersi, per l'appunto, tali: pure e semplici velleità - ancor prima che antieuropeo ed antiglobalista facendo leva, con mirabile ars retorica, su "sentimenti irrazionali e bisogni sociali latenti, alimentando la paura o l'odio nei confronti dell'avversario politico o di minoranze utilizzate come capro espiatorio". Quelle minoranze che, siano esse politiche, etniche o quant'altro, in quanto imperdonabili portatrici di diversità minano la pax sociale tanto faticosamente costruita e alimentata, deturpano l'idillio tra il conduttore e le sue genti.
O tra il pastore e le sue greggi. Perché verità di fondo inconfessabile comune a tutti i populismi è che il "popolo", che concorre a formare il Sovrano-Leviatano di Hobbes con molteplicità mostruosa dei suoi corpi, debba essere guidato. Che non sappia stare sulle proprie gambe, che non sia ancora pronto. "Così, assistiamo all'esplosione della retorica e dell'invettiva (facile ma banale) e all'involuzione della dialettica (difficile sui media, ma almeno interessante). Peraltro, la debolezza dei contenuti va fatta risalire a un'idea preliminare del suffragio, ovvero la credenza che il corpo elettorale sia ormai frammentato in gruppi di interesse e non più in blocchi sociali, e che la vittoria finale dipenda dunque dalla capacità di attrarre le più ampie ed eterogenee diversità. Le proposte, allora, diventano fragili e poco identificabili, e le stesse candidature rivelano i negoziati nascosti che a loro soggiacciono. Diventa quasi inevitabile far ricorso all'eventuale carisma del capo per coprire l'assenza di fascino dei concetti, e sperare nelle sue capacità di contatto col pubblico in sostituzione della perdita di efficacia simbolica dei contenuti (altro che "popolo", gli elettori sono diventati nient'altro che "pubblico")".
In ciò, senza alcun dubbio, Umberto Bossi è stato maestro, abile nel "raffigurare il popolo come "gente comune", contrapposto alle élite e ai loro intellettualismi e ad utilizzare le paure della "gente" (immigrazione, crisi economica e sociale) per tirare su il fortino identitario"; precursore, ancorché grezzo e d'istinto, rispetto al suo nemico fraterno, quel Berlusconi reo di "aver indotto i suoi critici a una attenzione ossessiva verso una contemporaneità sgradevole e a confondere il sintomo con la causa", navigato oratore in grado di parlare al cuore della gente toccando le opportune corde. Bravo nel delegittimare l'operato avversario ad ogni costo, nello sfuggire spesso e volentieri alle severe e scomode regole della democrazia costituzionale, nell'"evitare di subire passivamente il "teatrino" della politica, il petulante contraddittorio delle opposizioni, l'occhiuta vigilanza del capo dello Stato, le impudenti indiscrezioni della stampa, le vocianti reazioni della piazza, l'evocazione continua, benché velleitaria, del conflitto d' interessi".
Un'altra riflessione, a questo punto, sorge spontanea. Ai soli Bossi e Berlusconi è possibile tacciare le responsabilità di un populismo "de noantri"? La risposta, univoca e secca, è: no. C'è dell'altro.
C'è una tendenza, attualmente, che caratterizza tutti i partiti, nessuno escluso. E' la personalizzazione del potere, sempre più intensa ed intransigente, linfa di un populismo che sfrutta la intrinseca, complice predisposizione dei media - ed in particolar modo della tv - a spettacolarizzare la politica, con tutto quanto di becero ne consegue.
Partiti "personali", o meglio "personalizzati", "riassunti e riassumibili in un leader specifico,costruiti oppure evoluti come macchine al suo servizio".
E, dunque: non è forse da ritenersi un valido esempio di populismo di sinistra - e per questo ancora più sinistro - l'ormai noto caso di Matteo Renzi alla Stazione Leopolda di Firenze? Oppure, la retorica di partiti come l'Italia dei Valori, anch'essa veemente ed aggressiva, tesa alla denigrazione e delegittimazione dell'avversario, e tanto ossequiosa rispetto alla presunta forza persuasiva del proprio leader da giungere a ricorrere al suo nome in sede di propaganda elettorale? E la "Lista Pannella", o la "Lista Bonino" tra i Radicali?
Ancora, non è forse populismo quello di chi si straccia le vesti per l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori senza però interrogarsi a fondo riguardo alle concrete garanzie offerte ad un'intera generazione circa il proprio futuro lavorativo, come a ragione fa notare Tommaso di Brango nello scorso numero di Vox? E che dire, infine, del populismo locale, se possibile ancora più intriso di ipocrisia ed ambiguità, non fosse altro che per le "eccellenze" di cui ogni Comune, Provincia o Regione vagheggia di poter disporre, o per la noncuranza con cui gli stessi fingono di ignorare le dinamiche socio-politico-economiche ormai globali al punto di contrapporre ad esse, all'occorrenza, interessi locali - perlopiù privati - puri e semplici?
Questo, e molto altro ancora, è stato reso possibile in larga parte da tratti sociali, culturali e ideologici su cui è difficile intervenire. Ma è bene tener conto di come un populismo sempre più onnipervasivo conduca a due sole vie, entrambe nocive, se non addirittura letali, per qualsiasi democrazia: la via del qualunquismo, definitivo e incontrovertibile, e la via dell'antipolitica militante.
Attraverso di esse il populismo si fortifica, legittimando sé stesso in un circolo vizioso apparentemente senza fine. Nascono così coalizioni prive di coerenza interna, animate solo dalla ricerca del consenso a breve termine. La politica perde dunque la sua dimensione forse più nobile, quella della progettualità e della lungimiranza. "La lungimiranza può contrastare con domande forti e diffuse che invece, da un punto di vista elettorale, conviene assecondare". Il populismo non fa che assecondare tali domande, e da esse viene di rimando assecondato. Ciò in virtù anche e soprattutto di quelle modificazioni che si erano andate cumulando nel profondo della società italiana, di cui Berlusconi era sì sintomo, ma non causa. Le stesse modificazioni, allora però ancora in divenire, che Pier Paolo Pasolini aveva indagato negli "Scritti corsari" e nelle "Lettere luterane".
Come reagire, dunque?
L'unico modo, allo stato attuale delle cose, per poter sperare di ottenere benefici futuri - anche se, proprio per questo, "incerti e opinabili" - è proseguire imperterriti nella costruzione quotidiana della propria persona attraverso una costante crescita culturale ed intellettuale, e sperare che altri facciano altrettanto.
Nel suo "Socialismo, Anarchismo, Sindacalismo", Bertrand Russell scriveva: "Coloro le cui vite sono feconde per sé stessi, per i loro amici o per il loro mondo, sono ispirati dalla speranza e sostenuti dalla gioia; essi vedono con l'immaginazione le possibilità del futuro e il modo in cui esse devono essere realizzate. (...) Nel loro lavoro non sono perseguitati dalla gelosia dei competitori, ma il loro unico interesse è il reale problema che deve essere affrontato e risolto. In politica essi non consumano il loro tempo e il loro entusiasmo nella difesa di ingiusti privilegi della loro classe o della loro nazione, ma aspirano a rendere il mondo complessivamente più felice, meno crudele, meno ricco di conflitti tra interessi rivali, e più ricco di esseri umani la cui crescita non è stata conculcata e ostacolata dall'oppressione".
Quello che dunque i populisti non dicono è che necessitano della nostra ignoranza, della nostra incapacità critica, per poter prosperare: colmi di viltà lo sottintendono, mentre puntano l'indice contro IL nemico, reo designato, desumibile o presumibile, d'ogni nefandezza, causa causarum di ogni male; e ci accompagnano verso il baratro cingendoci le spalle, amichevolmente.
Fonti / Per approfondire:- http://www.italianieuropei.it/it/la-rivista/ultimo-numero/item/1793-populismo-una-definizione-indefinita-per-eccesso-di-definizioni.html
- http://doppiozero.com/materiali/cartoline-da/parigi-lo-spazio-del-populismo
- http://www.rivistailmulino.it/journal/articlefulltext/index/Article/Journal:RWARTICLE:36337
- Alfabeta2 , Numero 17 - Anno III, Marzo 2012: "Populismi inquinanti" (Marcello Flores, Alfio Mastropaolo, Fausto Bertinotti, Claudio Martini, Omar Calabrese, Alessandro Cannamela).
Matteo Canale Parola
Non esiste, né forse è mai esistito, in Italia, un partito di governo - è bene ribadirlo - più populista della Lega Nord. Affermazione che, inevitabilmente, richiede un chiarimento circa la definizione di "populismo".
Parola ormai d'abuso comune, quantomeno nel lessico politico, spesso erroneamente utilizzata come sinonimo di "demagogia" - a cui spesso si accompagna e di cui la Lega ha fatto un uso smodato - , deve il suo fascino alle suggestioni ch'è in grado di evocare.
Populismo è un sistema in cui tra il capo ed il "suo" popolo intercorre un rapporto diretto, privo di alcuna mediazione: da esso deriva un potere esercitato senza troppi vincoli o controlli quali possono esser considerate le pastoie di leggi ritenute eccessivamente coartanti e che finiscano dunque per incrinare il legame genuino, quasi paterno, tra il leader ed il suo seguito indifferenziato; conferito senza seguire procedure eccessivamente complicate, con forme quasi plebiscitarie.
Un "potere carismatico", quindi, volendo fare riferimento alla classificazione dei poteri legittimi messa a punto dal sociologo tedesco Max Weber: potere che poggia "sulla dedizione straordinaria al valore esemplare o alla forza eroica o al carattere sacro di una persona" e degli ordinamenti che questa ha creato.
Basti pensare allo straordinario grado di sostegno, quasi incondizionato, che Bossi ha saputo conservare nel bel mezzo della recente disfatta per comprendere come le capacità di captazione del consenso della Lega trascendano la dimensione meramente politica.
Come in ogni populismo ricollegabile all'area delle destre che si rispetti, essa ha saputo portare avanti un discorso xenofobo ed autonomista - non privo di ipocrisie; vedasi le velleità secessionistiche da ritenersi, per l'appunto, tali: pure e semplici velleità - ancor prima che antieuropeo ed antiglobalista facendo leva, con mirabile ars retorica, su "sentimenti irrazionali e bisogni sociali latenti, alimentando la paura o l'odio nei confronti dell'avversario politico o di minoranze utilizzate come capro espiatorio". Quelle minoranze che, siano esse politiche, etniche o quant'altro, in quanto imperdonabili portatrici di diversità minano la pax sociale tanto faticosamente costruita e alimentata, deturpano l'idillio tra il conduttore e le sue genti.
O tra il pastore e le sue greggi. Perché verità di fondo inconfessabile comune a tutti i populismi è che il "popolo", che concorre a formare il Sovrano-Leviatano di Hobbes con molteplicità mostruosa dei suoi corpi, debba essere guidato. Che non sappia stare sulle proprie gambe, che non sia ancora pronto. "Così, assistiamo all'esplosione della retorica e dell'invettiva (facile ma banale) e all'involuzione della dialettica (difficile sui media, ma almeno interessante). Peraltro, la debolezza dei contenuti va fatta risalire a un'idea preliminare del suffragio, ovvero la credenza che il corpo elettorale sia ormai frammentato in gruppi di interesse e non più in blocchi sociali, e che la vittoria finale dipenda dunque dalla capacità di attrarre le più ampie ed eterogenee diversità. Le proposte, allora, diventano fragili e poco identificabili, e le stesse candidature rivelano i negoziati nascosti che a loro soggiacciono. Diventa quasi inevitabile far ricorso all'eventuale carisma del capo per coprire l'assenza di fascino dei concetti, e sperare nelle sue capacità di contatto col pubblico in sostituzione della perdita di efficacia simbolica dei contenuti (altro che "popolo", gli elettori sono diventati nient'altro che "pubblico")".
In ciò, senza alcun dubbio, Umberto Bossi è stato maestro, abile nel "raffigurare il popolo come "gente comune", contrapposto alle élite e ai loro intellettualismi e ad utilizzare le paure della "gente" (immigrazione, crisi economica e sociale) per tirare su il fortino identitario"; precursore, ancorché grezzo e d'istinto, rispetto al suo nemico fraterno, quel Berlusconi reo di "aver indotto i suoi critici a una attenzione ossessiva verso una contemporaneità sgradevole e a confondere il sintomo con la causa", navigato oratore in grado di parlare al cuore della gente toccando le opportune corde. Bravo nel delegittimare l'operato avversario ad ogni costo, nello sfuggire spesso e volentieri alle severe e scomode regole della democrazia costituzionale, nell'"evitare di subire passivamente il "teatrino" della politica, il petulante contraddittorio delle opposizioni, l'occhiuta vigilanza del capo dello Stato, le impudenti indiscrezioni della stampa, le vocianti reazioni della piazza, l'evocazione continua, benché velleitaria, del conflitto d' interessi".
Un'altra riflessione, a questo punto, sorge spontanea. Ai soli Bossi e Berlusconi è possibile tacciare le responsabilità di un populismo "de noantri"? La risposta, univoca e secca, è: no. C'è dell'altro.
C'è una tendenza, attualmente, che caratterizza tutti i partiti, nessuno escluso. E' la personalizzazione del potere, sempre più intensa ed intransigente, linfa di un populismo che sfrutta la intrinseca, complice predisposizione dei media - ed in particolar modo della tv - a spettacolarizzare la politica, con tutto quanto di becero ne consegue.
Partiti "personali", o meglio "personalizzati", "riassunti e riassumibili in un leader specifico,costruiti oppure evoluti come macchine al suo servizio".
E, dunque: non è forse da ritenersi un valido esempio di populismo di sinistra - e per questo ancora più sinistro - l'ormai noto caso di Matteo Renzi alla Stazione Leopolda di Firenze? Oppure, la retorica di partiti come l'Italia dei Valori, anch'essa veemente ed aggressiva, tesa alla denigrazione e delegittimazione dell'avversario, e tanto ossequiosa rispetto alla presunta forza persuasiva del proprio leader da giungere a ricorrere al suo nome in sede di propaganda elettorale? E la "Lista Pannella", o la "Lista Bonino" tra i Radicali?
Ancora, non è forse populismo quello di chi si straccia le vesti per l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori senza però interrogarsi a fondo riguardo alle concrete garanzie offerte ad un'intera generazione circa il proprio futuro lavorativo, come a ragione fa notare Tommaso di Brango nello scorso numero di Vox? E che dire, infine, del populismo locale, se possibile ancora più intriso di ipocrisia ed ambiguità, non fosse altro che per le "eccellenze" di cui ogni Comune, Provincia o Regione vagheggia di poter disporre, o per la noncuranza con cui gli stessi fingono di ignorare le dinamiche socio-politico-economiche ormai globali al punto di contrapporre ad esse, all'occorrenza, interessi locali - perlopiù privati - puri e semplici?
Questo, e molto altro ancora, è stato reso possibile in larga parte da tratti sociali, culturali e ideologici su cui è difficile intervenire. Ma è bene tener conto di come un populismo sempre più onnipervasivo conduca a due sole vie, entrambe nocive, se non addirittura letali, per qualsiasi democrazia: la via del qualunquismo, definitivo e incontrovertibile, e la via dell'antipolitica militante.
Attraverso di esse il populismo si fortifica, legittimando sé stesso in un circolo vizioso apparentemente senza fine. Nascono così coalizioni prive di coerenza interna, animate solo dalla ricerca del consenso a breve termine. La politica perde dunque la sua dimensione forse più nobile, quella della progettualità e della lungimiranza. "La lungimiranza può contrastare con domande forti e diffuse che invece, da un punto di vista elettorale, conviene assecondare". Il populismo non fa che assecondare tali domande, e da esse viene di rimando assecondato. Ciò in virtù anche e soprattutto di quelle modificazioni che si erano andate cumulando nel profondo della società italiana, di cui Berlusconi era sì sintomo, ma non causa. Le stesse modificazioni, allora però ancora in divenire, che Pier Paolo Pasolini aveva indagato negli "Scritti corsari" e nelle "Lettere luterane".
Come reagire, dunque?
L'unico modo, allo stato attuale delle cose, per poter sperare di ottenere benefici futuri - anche se, proprio per questo, "incerti e opinabili" - è proseguire imperterriti nella costruzione quotidiana della propria persona attraverso una costante crescita culturale ed intellettuale, e sperare che altri facciano altrettanto.
Nel suo "Socialismo, Anarchismo, Sindacalismo", Bertrand Russell scriveva: "Coloro le cui vite sono feconde per sé stessi, per i loro amici o per il loro mondo, sono ispirati dalla speranza e sostenuti dalla gioia; essi vedono con l'immaginazione le possibilità del futuro e il modo in cui esse devono essere realizzate. (...) Nel loro lavoro non sono perseguitati dalla gelosia dei competitori, ma il loro unico interesse è il reale problema che deve essere affrontato e risolto. In politica essi non consumano il loro tempo e il loro entusiasmo nella difesa di ingiusti privilegi della loro classe o della loro nazione, ma aspirano a rendere il mondo complessivamente più felice, meno crudele, meno ricco di conflitti tra interessi rivali, e più ricco di esseri umani la cui crescita non è stata conculcata e ostacolata dall'oppressione".
Quello che dunque i populisti non dicono è che necessitano della nostra ignoranza, della nostra incapacità critica, per poter prosperare: colmi di viltà lo sottintendono, mentre puntano l'indice contro IL nemico, reo designato, desumibile o presumibile, d'ogni nefandezza, causa causarum di ogni male; e ci accompagnano verso il baratro cingendoci le spalle, amichevolmente.
Fonti / Per approfondire:- http://www.italianieuropei.it/it/la-rivista/ultimo-numero/item/1793-populismo-una-definizione-indefinita-per-eccesso-di-definizioni.html
- http://doppiozero.com/materiali/cartoline-da/parigi-lo-spazio-del-populismo
- http://www.rivistailmulino.it/journal/articlefulltext/index/Article/Journal:RWARTICLE:36337
- Alfabeta2 , Numero 17 - Anno III, Marzo 2012: "Populismi inquinanti" (Marcello Flores, Alfio Mastropaolo, Fausto Bertinotti, Claudio Martini, Omar Calabrese, Alessandro Cannamela).
Matteo Canale Parola
gli articoli del numero di aprile online #6
Berlusconi non è un
fascista
Per diverso tempo si è
parlato del berlusconismo come di una sorta di fascismo. Lo ha fatto
Alberto Asor Rosa, che ha ritenuto di poter dire che l’uomo di
Arcore ha instaurato in Italia un regime addirittura peggiore di
quello di Mussolini; lo ha fatto Massimo Giannini, che ha scritto un
libro per stabilire una sorta di equivalenza tra i due fenomeni; lo
ha fatto Franco Cordero, per il quale addirittura i riti esorcistici
dell’intellettualità liberal del “Corriere della Sera” sono
analoghi a quelli che, nel ’22, proponeva Luigi Albertini.
E certo, Asor Rosa,
Giannini, Cordero e gli altri che hanno sostenuto questa tesi hanno
dalla loro il fatto che Berlusconi, specie dal 2008 in poi, ha
mostrato un piglio decisionista tendenzialmente eversivo, che
esternava palese fastidio per i meccanismi che garantiscono
l’esistenza in vita della nostra democrazia. Ma, altrettanto
certamente, non ovunque ci sono atteggiamenti di stampo
decisionista/eversivo c’è fascismo. Ci sono stati anche nella
Russia sovietica: eppure non era fascismo; e ci sono stati anche
nella Russia di Putin: eppure non era fascismo (tanto che Veltroni
arrivò a parlare di “deriva putiniana” a proposito delle
disinvolture di Berlusconi). Definire “fascista” ogni fenomeno
non schiettamente democratico significa ragionare come un critico
letterario che definisce “poeta” chiunque abbia scritto almeno
una raccolta di poesie in vita sua.
Viceversa, esistono
condizioni storiche oggettive in cui, talvolta, i regimi politici
entrano in crisi con o senza il desiderio, da parte delle classi
dirigenti, di farceli entrare, e questa credo sia la situazione della
democrazia italiana degli ultimi trent’anni. Facciamo due passi
indietro nella storia. Venne fuori Craxi ed il mito della Grande
Riforma per trasformare un Paese dominato dall’antiquata diarchia
D.C.-P.C.I. in una democrazia a tutti gli effetti moderna: sappiamo
come finì. E sappiamo pure che non finì solo per le ruberie di
Craxi e combriccola, ma anche perché si trovò ad avere a che fare
con un Paese in cui, per essere rieletti, occorre non toccare i punti
nevralgici. Non a caso fu allora che, di fronte al conflitto tra
necessità oggettive del Paese e desideri soggettivi dei cittadini (e
dei politici), cominciò a venir fuori quella tendenza decisionista e
para-autoritaria che in seguito si è rimproverata a Berlusconi.
La storia della Seconda
Repubblica – o l’agonia della Prima? – ce l’abbiamo sotto gli
occhi nei suoi effetti: impotenza dei governi, riforme a iosa (visto
che ogni riforma era, in definitiva, una non-riforma), tendenza alla
spettacolarizzazione della politica come tentativo di sopperire alla
sua incapacità operativa. L’unica vera eccezione in questi quasi
vent’anni è stato, con ogni probabilità, Romano Prodi, che è
riuscito nel vero e proprio miracolo – pur aiutato da
un’interpretazione abbastanza “flessibile” dei parametri di
Maastricht da parte di Francia e Germania – di far entrare un Paese
come il nostro nell’euro. E, guarda il caso, l’unico vero
sussulto di vita della cosiddetta Seconda Repubblica è, oggi, uno
dei principali imputati della situazione di crisi in cui ci troviamo
malgrado sia sotto gli occhi di chiunque abbia capacità d’intendere
che uscire dall’euro, per noi, sarebbe una vera catastrofe. Come
se, per una curiosa legge del contrappasso, la capacità di svolgere
un’azione incisiva fosse inevitabilmente votata allo scarso
apprezzamento da parte degli italiani – e dei politici che, da
Vendola a Bossi, sono ben consapevoli che il populismo, viceversa,
paga. Per il resto, la Seconda Repubblica la ritengo un’agonia
della Prima perché, come nelle fasi conclusive di quest’ultima,
essa si è protratta stancamente tra il carattere epocale dei
proclami e la scarsità dei risultati e la causa di questo
bifrontismo è stata proprio il fatto che, di tanto in tanto, in
Italia si vota. Questa tendenza si è invertita col governo Monti.
Tutti l’hanno notato: è sobrio, non fa proclami, non si straccia
le vesti. Ma, piaccia (a me spesso piace) o non piaccia (a me a volte
non piace), agisce molto più di quanto abbiano fatto i suoi
predecessori negli ultimi vent’anni. E perché agisce? Semplice:
perché non deve essere votato da nessuno. Quando si tornerà alle
urne, tra un anno, non dovrà vedersela con pensionati e tassinari
perché, semplicemente, non si presenterà.
Tutto questo lascia
pensare che non sia stato Berlusconi a mettere in crisi la
democrazia, ma che al contrario Berlusconi sia stato il sintomo di
una crisi democratica che era già in atto per conto suo. E fin qui
si potrebbe dire (e sarebbe un’obiezione sensata): nemmeno il
fascismo provocò la crisi dello Stato liberale, eppure da quella
crisi nacque il fascismo. Tuttavia occorre tener presente che, pur
nascendo dalla crisi del regime che lo ha preceduto, il fascismo ha
segnato una discontinuità rispetto ad esso; il berlusconismo,
viceversa, non ha fatto altro che riproporre le dinamiche della
democrazia in crisi entro cui ha visto la luce il suo progetto
politico. È stato il fenomeno più scintillante della crisi: non la
sua risoluzione in senso autoritario. Ciò è talmente vero che tutti
coloro che hanno onestamente tentato di fare un bilancio dell’Evo
berlusconiano non hanno potuto fare a meno di constatare che il
proclama della “Rivoluzione Liberale” con cui si presentò agli
elettori è rimasto sostanzialmente disatteso, mentre hanno prevalso
gli interessi soggettivi e di parte. Si potrebbe dire che se la
cosiddetta Seconda Repubblica è stata l’agonia della Prima, il
berlusconismo è stato l’agonia del craxismo. In un quadro del
genere era inevitabile che non tutte le azioni dell’uomo di Arcore
apparissero dettate da una sincera fede democratica, ed anzi sarebbe
stato strano il contrario: se c’è una crisi – qualsiasi tipo di
crisi – è inevitabile che ci siano anche i suoi sintomi. Ecco: gli
Asor Rosa, i Giannini, i Cordero scambiano i sintomi per la crisi.
Berlusconi è il più scintillante sintomo della crisi democratica
che stiamo vivendo da trent’anni a questa parte: non una riedizione
del fascismo.
Post scriptum. Ho
detto che Berlusconi è stato il più notevole sintomo della crisi
della nostra democrazia. Da ciò segue, però, che anche Monti,
malgrado tutti i meriti che sono disposto a riconoscergli e la
simpatia personale che nutro per lui, lo è. Come abbiamo visto
prima, infatti, ha invertito la tendenza della Seconda Repubblica
perché, a differenza di chi quest’ultima l’ha governata, lui non
ha l’assillo di dover sottostare al giudizio degli elettori. Questo
vuol dire – ad ulteriore conferma della tesi che ho cercato di
argomentare – che la crisi della democrazia non è finita con la
fine di Berlusconi, e che anzi occorrerà tener conto del suo
perdurare non meno di quanto si tiene conto della crisi economica.
Anche perché se da un lato – come ho fatto capire chiaramente –
la dicitura “Seconda Repubblica” ha, per me, una valenza più
giornalistica che storiografica, dall’altro anche l’idea che essa
sia una “agonia della Prima Repubblica” mi convince fino ad un
certo punto. Non è infatti impossibile che gli storici di domani,
nel leggere gli eventi che stiamo vivendo, più che di “Seconda
Repubblica” o di “agonia della Prima Repubblica” parleranno, a
proposito degli ultimi vent’anni, di “premessa a…”. A cosa?
Tommaso Di Brango
gli articoli del numero di aprile online #5
GIOVANNI
PASSANNANTE
L’UTOPIA
DELLA “REPUBBLICA UNIVERSALE”
DI
GIANLUCA MARIO
Nel 1861 si incontrarono
a Londra Giuseppe Mazzini e Michail Bakunin. Da questo incontro
maturò un programma di lotta che voleva dare vita alla “Repubblica
Universale” nella quale gli uomini fossero tutti liberi e senza
differenze di classe, riuniti in un fraterno consorzio umano senza
alcuna costrizione da parte dello Stato. Gli ideali bakuniani e le
aspirazioni mazziniane vennero prese in seria considerazione nel Sud
Italia dove le masse agricole vivevano di stenti e di privazioni
oppresse dal nuovo governo sorto dopo l’unificazione nazionale. La
leva obbligatoria toglieva forza lavoro nei campi e la tassa sul
macinato gravava come un macigno sui già miseri contadini. Molti
furono i giovani intraprendenti e sognatori che videro nella
Repubblica Universale un futuro più roseo. Tra questi giovani
idealisti vi era anche un ragazzo di povere origini: Giovanni
Passannante. Passannante era nato in una umilissima famiglia di
Salvia di Lucania. I problemi economici lo portarono ben presto ad
allontanarsi da casa per non gravare sui genitori. Pur avendo avuto
una scarsa istruzione primaria il giovane si appassionò alla
letteratura e, soprattutto, alla politica. Abbracciate le idee
repubblicane iniziò a frequentare circoli filo mazziniani. A
Salerno, nel 1870, incitò il popolo a rivoltarsi alla corona sabauda
e per questo venne arrestato. Uscito di prigione si recò a Napoli
dove visse alla giornata cambiando diversi lavori. Intanto, nel 1878,
moriva Vittorio Emanuele II ed il nuovo re, Umberto I, decise di
organizzare un viaggio nelle principali città italiane per farsi
conoscere dai suoi sudditi. Il 17 novembre 1878 il sovrano giunse nel
capoluogo campano. Il corteo si allungava lungo le vie cittadine tra
due ali di folla e in molti si avvicinavano alla carrozza reale per
chiedere suppliche al monarca. Tra la moltitudine c’era anche il
ventinovenne Passannante. Il giovane attese il momento giusto per
avvicinarsi al sovrano. Quando fu in prossimità della carrozza salì
sul predellino e armato di un coltello tentò di pugnalare il re che
riuscì a difendersi rimanendo leggermente ferito ad un braccio.
Subito l’accoltellatore venne bloccato dai corazzieri che lo
trassero in arresto. Iniziò così un’incessante sequela di
interrogatori con i quali gli inquirenti tentarono di capire se
l’attentatore avesse agito per conto suo o perché mosso da qualche
superiore associazione anarchico-repubblicana. Giunti alla
conclusione che Passannante aveva agito da solo perché vedeva
racchiusi, come lui diceva, nella monarchia tutti i mali della
società e i motivi per i quali il popolo viveva nella povertà più
nera, venne emanata la sentenza. Il processo si concluse tra mille
polemiche con una condanna a morte, pena commutata con la detenzione
a vita in un carcere dell’isola d’Elba. In molte città italiane,
infiammate dagli avvenimenti del 17 novembre, scoppiarono sommosse e
tumulti. Ci furono scontri con le forze dell’ordine a Pisa,
Firenze, Milano, Torino, Genova e Bologna. Il poeta Giovanni Pascoli
scrisse addirittura un ode a Passannante e si dice che, declamando i
suoi versi, avesse detto: - Se questi sono malfattori, evviva i
malfattori! Dopo la condanna Passannante venne condotto nel carcere
di Ponteferraio e rinchiuso in una squallida cella. Le scarse
condizioni igieniche del tugurio in cui era costretto a vivere
portarono ben presto l’ergastolano ad ammalarsi seriamente di
scorbuto e di bronchite cronica. L’isolamento gli procurò, oltre
ai danni fisici, gravi danni mentali che lo portarono gradualmente
alla pazzia. Gli ultimi anni della sua vita Passannante li trascorse
in una minuscola cella del manicomio criminale di Montelupo
Fiorentino non pentendosi mai delle sue azioni e senza mai rinnegare
quelli che furono i suoi ideali.
gli articoli del numero di aprile online #4
LEGGERE
PER VIVERE
DI
NELLO VARSAVIA
In
una società che assume contorni sempre più distopici,in cui il
bombardamento di immagini e l'immediatezza del messaggio visivo va a
scapito del lento e meditato lavorio intellettuale necessario per
entrare in contatto con la parola scritta,il libro è diventato un
oggetto desueto. Le cause che stanno portando all'estinzione
dell'attività della lettura sono molteplici: la televisione, i
social network,la scuola dell'obbligo che spesso mortifica lo studio
e la conoscenza della letteratura in sterili esercizi di analisi dei
testi che trascurano il significato delle opere letterarie anche se
nel caso specifico del nostro Paese bisogna considerare che non
abbiamo mai avuto una classe borghese colta ne abbiamo mai avuto una
nostra età del romanzo,le ragioni per cui gli italiani non leggono
vanno dunque ricercate anche nel nostro lacunoso pedigree storico.
Chi vive,vive la propria vita. Chi legge, vive anche la vita degli
altri. La scrittura registra il lavoro del mondo e tramite la lettura
noi ereditiamo questo lavoro,ne veniamo trasformati,alla fine di ogni
libro e di ogni giornale ognuno di noi è diverso da come era
all'inizio. Se qualcuno non legge libri ne articoli ignora quel
lavoro,è come se il mondo lavorasse per tutti non per lui,l'umanità
corre ma lui è fermo. Fra letteratura, vita e mondo c'è una
relazione costante e diretta,la letteratura è pensiero e conoscenza
del mondo psichico in cui viviamo. La realtà che la letteratura
vuole conoscere è semplicemente (ma al tempo stesso non vi è nulla
di più complesso) l'esperienza umana. Questo continuo interscambio
fra le esperienze della vita e quelle della lettura non viene di
certo favorito dai molti libri inutili e dannosi di cui è saturo il
cosmo dell'editoria (quelli di Moccia in particolare sono un
insuperato e forse insuperabile stupidario).Un bravo lettore è in
primo luogo colui che sa quali libri non leggere e a mio modestissimo
parere le migliori letture sono quelle attraverso cui possiamo
ritrovare le problematiche del nostro tempo: la perdita dei valori
tradizionali e della individualità, la contraddittorietà dei propri
stati di coscienza, il senso di estraneità, il rapporto con il
diverso, la crisi e la solitudine dell'uomo. Il compito delle
famiglie, delle istituzioni ma più in generale di ogni singolo
lettore è quello di cercare di trasmettere il valore inestimabile
dei libri che non devono mai diventare uno strumento di potere, un
trofeo da sfoggiare, un mezzo per umiliare le persone più ignoranti
a suon di citazioni e minuscoli granelli di falsa certezza sciorinati
spocchiosamente. L'atto della leggere non deve avere nulla di
autoreferenziale, al contrario deve renderci più liberi e aperti,
nutrire il nostro spirito ma anche consolarci dai momenti di
sconforto, renderci più coscienti e consapevoli, più creativi, meno
soggetti a pregiudizi e condizionamenti. Facendoci muovere nel tempo
e nello spazio la lettura arricchisce le nostre esistenze e ci
consegna le chiavi per aprire i lucchetti infiniti della realtà.
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GIOVANNI
PASSANNANTE
L’UTOPIA
DELLA “REPUBBLICA UNIVERSALE”
DI
GIANLUCA MARIO
Nel 1861 si incontrarono
a Londra Giuseppe Mazzini e Michail Bakunin. Da questo incontro
maturò un programma di lotta che voleva dare vita alla “Repubblica
Universale” nella quale gli uomini fossero tutti liberi e senza
differenze di classe, riuniti in un fraterno consorzio umano senza
alcuna costrizione da parte dello Stato. Gli ideali bakuniani e le
aspirazioni mazziniane vennero prese in seria considerazione nel Sud
Italia dove le masse agricole vivevano di stenti e di privazioni
oppresse dal nuovo governo sorto dopo l’unificazione nazionale. La
leva obbligatoria toglieva forza lavoro nei campi e la tassa sul
macinato gravava come un macigno sui già miseri contadini. Molti
furono i giovani intraprendenti e sognatori che videro nella
Repubblica Universale un futuro più roseo. Tra questi giovani
idealisti vi era anche un ragazzo di povere origini: Giovanni
Passannante. Passannante era nato in una umilissima famiglia di
Salvia di Lucania. I problemi economici lo portarono ben presto ad
allontanarsi da casa per non gravare sui genitori. Pur avendo avuto
una scarsa istruzione primaria il giovane si appassionò alla
letteratura e, soprattutto, alla politica. Abbracciate le idee
repubblicane iniziò a frequentare circoli filo mazziniani. A
Salerno, nel 1870, incitò il popolo a rivoltarsi alla corona sabauda
e per questo venne arrestato. Uscito di prigione si recò a Napoli
dove visse alla giornata cambiando diversi lavori. Intanto, nel 1878,
moriva Vittorio Emanuele II ed il nuovo re, Umberto I, decise di
organizzare un viaggio nelle principali città italiane per farsi
conoscere dai suoi sudditi. Il 17 novembre 1878 il sovrano giunse nel
capoluogo campano. Il corteo si allungava lungo le vie cittadine tra
due ali di folla e in molti si avvicinavano alla carrozza reale per
chiedere suppliche al monarca. Tra la moltitudine c’era anche il
ventinovenne Passannante. Il giovane attese il momento giusto per
avvicinarsi al sovrano. Quando fu in prossimità della carrozza salì
sul predellino e armato di un coltello tentò di pugnalare il re che
riuscì a difendersi rimanendo leggermente ferito ad un braccio.
Subito l’accoltellatore venne bloccato dai corazzieri che lo
trassero in arresto. Iniziò così un’incessante sequela di
interrogatori con i quali gli inquirenti tentarono di capire se
l’attentatore avesse agito per conto suo o perché mosso da qualche
superiore associazione anarchico-repubblicana. Giunti alla
conclusione che Passannante aveva agito da solo perché vedeva
racchiusi, come lui diceva, nella monarchia tutti i mali della
società e i motivi per i quali il popolo viveva nella povertà più
nera, venne emanata la sentenza. Il processo si concluse tra mille
polemiche con una condanna a morte, pena commutata con la detenzione
a vita in un carcere dell’isola d’Elba. In molte città italiane,
infiammate dagli avvenimenti del 17 novembre, scoppiarono sommosse e
tumulti. Ci furono scontri con le forze dell’ordine a Pisa,
Firenze, Milano, Torino, Genova e Bologna. Il poeta Giovanni Pascoli
scrisse addirittura un ode a Passannante e si dice che, declamando i
suoi versi, avesse detto: - Se questi sono malfattori, evviva i
malfattori! Dopo la condanna Passannante venne condotto nel carcere
di Ponteferraio e rinchiuso in una squallida cella. Le scarse
condizioni igieniche del tugurio in cui era costretto a vivere
portarono ben presto l’ergastolano ad ammalarsi seriamente di
scorbuto e di bronchite cronica. L’isolamento gli procurò, oltre
ai danni fisici, gravi danni mentali che lo portarono gradualmente
alla pazzia. Gli ultimi anni della sua vita Passannante li trascorse
in una minuscola cella del manicomio criminale di Montelupo
Fiorentino non pentendosi mai delle sue azioni e senza mai rinnegare
quelli che furono i suoi ideali.
gli articoli del numero di aprile online #3
UN
MONDO DI SEGNI
semiologia
e critica sociale
di Mario Ciaburri
Il termine semiologia ( dal greco
semeion: “segno”) viene proposto a inizio '900 dal
fondatore della linguistica moderna, lo svizzero Ferdinand De
Saussure, che la definisce come: “scienza che studia la vita dei
segni nel quadro della vita sociale”, considerando il segno come il
rapporto tra un concetto , il significato, e un immagine acustica, il
significante. Gli sviluppi più interessanti di questa disciplina si
hanno però negli anni '60 del secolo scorso, grazie alle teorie
strutturaliste e all'opera dell'eclettico pensatore francese Roland
Barthes, che partendo dallo studio del segno linguistico ha
analizzato i processi di significazione e comunicazione che si
sviluppano nel contesto sociale e culturale. Per Barthes dunque,
riflessione sul linguaggio è riflessione critica sul mondo, ricerca
costante di significazione in ogni fatto o evento. Il suo lavoro si
concentra sulla strategia di persuasione che un determinato sistema
ideologico ( quello borghese) mette in atto per far passare come
“naturali”, fenomeni che sono essenzialmente “storico-culturali”.
Un vero e proprio meccanismo di deformazione della realtà attraverso
un “linguaggio secondo” che Barthes chiama mito. Riprendendo il
segno come concetto saussuriano di unione tra un significante e un
significato, esso diventa il significante di un sistema semiologico
secondo, che veicola un altro significato. Questo secondo livello
rappresenta il mito. Il semiologo o meglio il “mitologo”, deve
distinguere nella sua analisi questi due livelli e svelare la
deformazione; demolire la significazione del mito borghese che
trasforma la realtà del mondo in immagine del mondo, l'immagine che
la borghesia si fa e ci fa dei rapporti fra l'uomo e il mondo. Nella
nostra società quindi, il carattere mitologico del segno non può
che essere “cattivo”, non può che rinviare in maniera più o
meno velata a un autorità costituita, a un regime a libertà
vigilata. Una cultura che tende a trasformare gli oggetti in segni
di quegli oggetti, a caricare di senso cose, persone e fatti che nel
divenire “significanti”, perdono ogni contatto con la realtà.
Un'analisi quella barthesiana, che prende in considerazione l'estrema
vicinanza tra realtà e discorso, tra ciò di cui si parla e come si
parla. Da qui l'importanza fondamentale del concetto di linguaggio
verbale rispetto a qualsiasi sostanza espressiva non verbale (
immagini, gesti...), in quanto è solo la lingua a nominare il senso
e quindi indicare la direzione della significazione. Attraverso lo
studio semiologico è quindi possibile dissipare le connotazioni
sociali e culturali che la borghesia ha calato sulla lingua,
liberandola dall'ideologia di cui è impregnata. Per questo
l'attività di semiologo per Barthes, oltre che interesse scientifico
e intellettuale, è anche e soprattutto impegno, engagement etico
e morale, atto di contestazione contro l'assedio dei segni e dei miti
che l'uomo è costretto a subire.
“E
tuttavia è questo che dobbiamo cercare: una riconciliazione del
reale e degli uomini, della descrizione e
della spiegazione, dell'oggetto e del sapere”
(Roland Barthes, Mythologies)
gli articoli del numero di aprile online #2
“Se
può essere scritto o pensato, può essere filmato”: l’occhio di
Stanley Kubrick sul mondo.
Secondo una
definizione di Gilles Deleuze quello di Kubrick è un “cinema del
cervello” ma anche un cinema del corpo: mette in scena le
destabilizzazioni causate da pulsioni biologiche e fisiologiche
proprie dell’uomo. È in questo mistero che Kubrick indaga,
lasciandoci capolavori in grado di resistere ai cambiamenti delle
mode.
Il suo esordio come
regista indipendente risale al 1950 per poi affermarsi a metà degli
anni Cinquanta nel cinema di genere, in particolare del film
noir. Nelle sue prime tre opere “nere”,
Fear and Desire (1953),
Il bacio dell'assassino (1955)
e Rapina a mano armata (1956),
Kubrick introduce elementi di rinnovamento
che troveranno ampio spazio in Orizzonti di
gloria, del 1957, e Spartacus,
del 1960, in cui però si ha un'ulteriore
evoluzione della visione del mondo kubrickiana che si andrà sempre
più radicando in un pessimismo di fondo.
Abbandonando
in cinema gangseristico dei suoi primi film per quello bellico, il
regista ha saputo rappresentare le inevitabili complicazioni della
società borghese sviluppando poi un discorso politico di natura
universale: una visione antimilitarista,
progressista, ispirata alle tesi del liberalismo moderato. La
sua giovinezza inoltre trascorre durante gli anni della seconda
guerra mondiale: non sembra un caso, quindi, il continuo ritorno dei
suoi film sul tema della guerra come costante antropologica.
Negli anni
Sessanta Kubrick si trasferisce in Gran Bretagna
ed è in questo periodo che approfondisce la sua
riflessione sulla società contemporanea
post-capitalistica e soprattutto sulla condizione dell'uomo. In
questi anni nascono storie come Lolita (1962)
e Il dottor Stranamore (1964).
Il primo, tratto dall’omonimo romanzo-scandalo di Nabokov, crea
qualche problema al regista in quanto il film avrebbe potuto mostrare
ciò che nel libro era solo implicito: la storia
racconta infatti l'attrazione che un uomo di
trentanove anni prova per una dodicenne.
Il dottor
Stranamore affronta invece temi politici
quali il conflitto Usa-Urrss, la corsa agli armamenti, il pericolo di
una guerra atomica che, con un’amara ironia, palesano risvolti
apocalittici e decisamente catastrofici.
Nel
1968, un
anno prima dello sbarco sulla Luna, esce 2001:
Odissea nello spazio, film che mette in atto
un'opprimente rappresentazione di una società immaginaria che
rischia di cancellare l'uomo negli anni del terrore atomico scattato
con la crisi di Cuba nel 1962.
Il 1971 è
l’anno di Arancia meccanica, ritratto
della violenza totalmente gratuita di un gruppo di giovani che svela
la faccia più pericolosa di una società gravemente debole. Kubrick
teme per la propria incolumità e lo ritira dalle sale inglesi, solo
nel 2000 il film tornerà ad essere proiettato in Gran Bretagna.
Dal 1976 al
1999 Kubrick realizza solo quattro film: Barry
Lyndon, ritratto di un’ Irlanda borghese ed
ipocrita del XVIII secolo, Shining,
del 1980, un horror imperniato sulla
progressiva discesa negli inferi della follia di uno scrittore, Full
Metal Jacket, film del 1987 sulla guerra del
Vietnam ed ultimo Eyes Wide Shut ispirato
alla novella di Schnitzler Doppio sogno.
Dalla fine
degli anni Cinquanta all'inizio degli anni Novanta, Kubrick ha
occupato un posto di rilievo nella cinematografia mondiale: la sua
produzione, numericamente non elevatissima ma di alto livello
formale, si è imposta con una forza morale tale da restare immune al
passare del tempo.
Mariarita Nigro
gli articoli del numero di aprile online #1
l
Tutto, il Nulla e l’Humanus:
l’eredità di Pascoli a 100 anni dalla sua morte
Il 6
aprile 1912 Giovanni Pascoli moriva. Sono passati 100 anni da quel
giorno, ma la sua poesia non ha mai smesso di parlare, «sussurrare»
nuove trame e indicarci nuovi sentieri in quel «grande Tempio»
che è la natura, ma anche e soprattutto la vita dell’uomo.
Volendo
qui ricordare qualcosa di lui, inevitabilmente non si potrà dire
tutto, perché dire tutto vorrebbe dire nulla. E allora ho scelto di
soffermarmi proprio sul Nulla, su quell’esistenza che emerge nei
Conviviali, o meglio, è sommersa dal gran mare del «non
essere, non essere più».
Tra
tutte le storie dei Conviviali − all’interno di quel lungo
svolgimento del filo del mito, una trama che corre dall’antichità
greca fino agli albori dell’era cristiana − cercando di
restringere ancora l’obiettivo, la mia attenzione cade sull’Ultimo
viaggio di Ulisse, un epos che in quel Tutto che sa di viaggio,
amore, gloria e verità, inserisce proprio il dramma del Nulla.
Pascoli
riscrive l’Odissea omerica, ripercorre quei 24 libri nei 24
canti, ma il suo nostos non è un ritorno alla vita: è un
viaggio verso la morte. L’Odisseo pascoliano (rigorosamente
chiamato con il nome greco) è un non-eroe novecentesco, un uomo
senza più storia, smarrito nei meandri del tempo, sospeso tra un
presente che non ha più il passato. Come è arrivato a Itaca, come è
ritornato alla sua patria? Era vero ciò che di lui avevano cantato
gli aedi? Tutto è indefinito, le domande non trovano più risposte,
fino al grande silenzio delle sirene.
Nemmeno
la profezia di Tiresia ha più il sapore della sentenza ineluttabile:
Odisseo non si fermerà per sempre, non morirà come un comune uomo
attivo, ma sarà l’uomo contemplativo, quello che, come
Rachele della Digitale purpurea, farà esperienza della morte.
Continuo è quel refrain epico «E per nove anni» che apre ben 3
canti (V, VI, VIII), fino al momento della decisione, fino
all’incontro con l’aedo Femio che lo accompagna in questo viaggio
a ritroso.
Come
erano stati questi nove anni a Itaca? Erano trascorsi con la solita
monotonia delle cose umane, mentre quelle gru − le stesse che in In
cammino ricordano all’homo viator che è tempo di
ripartire − sfidavano il mare e deridevano la condizione di Odisseo
che «al focolar sedeva». Rileggendo i versi de Il ramo confitto,
è facile scorgere in controluce quel «Re neghittoso» di
Tennyson (non a caso tradotto da Pascoli) che non riesce «alla vampa
del mio focolare tranquillo / star, con antica consorte, tra sterili
rocce», annoiato dalla «selvaggia gente che ammucchia, che dorme,
che mangia e che non mi conosce».
Nasce
così il desiderio di partire perché «sonno è la vita quando è
già vissuta: / sonno; ché ciò che non è tutto, è nulla» (X, La
conchiglia, vv. 31-32), e «or io mi voglio rituffar nel sonno, /
s’io trovi in fondo dell’oblio quel sogno» (ivi, vv. 37-38). Il
passato è dunque un sogno dai contorni indefiniti, un torpore che
terminerà soltanto con il risveglio della morte.
E
Odisseo, avanzando nel mare dell’esistenza, vede cadere
leopardianamente tutte le illusioni della sua vita. Si incomincia da
quella più dolce, l’amore, che «destato solo allor ti muore»
(XVII. L’amore, v.34), con l’assenza di Circe e la morte
di Femio/poesia, perché nulla può ormai consolare, nemmeno il
canto. E si continua con la scoperta che nessuno (con grande
ambiguità semantica) accecò mai Polifemo, perché tutto fu soltanto
una leggenda: «Al monte? L’occhio? Trivellò? Nessuno» (v.45).
E il
pathos cresce fino alle sirene che qui Pascoli recupera nella veste
di arcane depositarie della verità perché «Il mio sogno non era
altro che sogno; / e vento e fumo. Ma sol buono è vero» (XXI, Le
sirene, vv. 15-16). E quel vero viene urlato, viene chiesto a
quelle donne/sfingi con le sembianze di uno scoglio, perché Odisseo
che sa di morire ha quel dubbio che nessuno potrà mai risolvere:
«Ditemi almeno chi sono io! Chi ero!» (XXXIII, Il vero, v.
54). E su questo finale si innalza «l’ululato» della
Nasconditrice Calypso, l’unica capace di svelare una verità che
nessuno potrà/vorrà mai ascoltare: «Non esser mai! Non esser mai!
Più nulla, / ma meno morte, che non esser più!» (XXIV, Calypso,
vv. 52-53): meglio per l’uomo non nascere affatto, piuttosto
che sapere di morire. Lei che aveva offerto l’eternità all’uomo
che amava, ne piange e commisera ora la morte, intrappolandolo
nell’ombra scura dei suoi capelli.
Quel
grido di verità sarà risolto da un altro eroe, che, nonostante la
storicità, gareggia nel mito al fianco di Odisseo: Alexandros. Anche
lui esploratore fino ai limiti delle possibilità umane, una volta
giunto agli estremi confini, voltandosi indietro dirà: «Il sogno è
l’infinita ombra del vero» (v.10). Era meglio non partire perché
la fine è il Niente, meglio continuare a sognare, come faceva quel
fanciullo di Leopardi davanti al mappamondo, immaginando terre
lontane.
Il
Tutto si assimila al Niente e tra le righe Pascoli dialoga col
pessimismo leopardiano del pastore che parla agli astri, in un
«chiacchiericcio» che approda all’unica verità: «Gli uomini
amarono più le tenebre che la luce», l’uomo è mortale e la
consapevolezza del suo Nulla diventa il Tutto del suo essere humanus.
Pamela Di Mambro
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