Da Monicelli a Pertini... “Il Testamento” di Andrea Appino!
Il Testamento,
è il nome dell’ album d’esordio, e del progetto di Andrea Appino voce e
chitarra (Zen Circus), Giulio Favero al basso (Il Teatro degli Orrori), Franz
Valente alla batteria (Il Teatro degli Orrori), Rodrigo D’Erasmo al violino
(Afterhours, Muse).
Il disco, come afferma lo stesso Appino: "E’ la totale liberazione dei miei dolori più profondi, la vera e difficile storia della mia famiglia usata come veicolo per una terapia di gruppo, necessaria e a tratti violenta.".
Il disco, come afferma lo stesso Appino: "E’ la totale liberazione dei miei dolori più profondi, la vera e difficile storia della mia famiglia usata come veicolo per una terapia di gruppo, necessaria e a tratti violenta.".
Il brano di apertura è Il Testamento - una dedica al maestro Mario Monicelli- in cui il cantautore “rivive” la vita, soffermandosi sull’episodio legato al suicidio dell'amato Regista. Il primo singolo estratto invece, Che il lupo cattivo vegli su di te, è una sorta di critica verso la società, come testimoniano alcuni versi: “la gente sparla, s'indigna e singhiozza, la gente infama, tradisce e poi ride in gran tranquillità”... La soluzione?! Facile, prendere il Passaporto dell’omonimo brano, per il viaggio più difficile di tutti, ovvero, il viaggio interiore di Appino. Gli stati d'animo e i problemi del cantautore sono ricorrenti, come in Specchio dell'anima e Schizofrenia – dove fa capire che molte volte siamo noi stessi il nostro nemico. Invece in Fiume Padre e Tre Ponti – affronta temi amorosi, in cui, critica le persone che fanno dell'amore un' “ancora” di salvezza, ma non sempre si dimostra una scelta azzeccata.
Infine, ci sono gli ultimi omaggi, come in La festa della liberazione – un chiaro omaggio a “Via della Povertà” di Fabrizio De Andrè, traduzione di “Desolation Row” di Bob Dylan. Seguita da Godi (adesso che puoi), omaggio ad un altro grande artista del panorama italiano, Lucio Dalla, e lo fa immedesimandosi così bene, che il brano ricorda una versione soft di “Disperato erotico Stomp”. Il disco si chiude con 1983 una canzone in cui il cantautore si ispira, essendone rimasto attratto, al discorso di natale del medesimo anno, tenuto dall'allora Presidente della Repubblica, Sandro Pertini.
Il disco è affascinante
come le figure a cui si è ispirato l'artista, l'unica pecca, è che non lo ascolteremo
e vedremo nelle radio e nelle Tv, a causa del genere (di nicchia) musicale.
Beh, che dire: “Evviva la MODA'!“
Francesco Sacco
Francesco Sacco
Le notti bianche
Storie di sogni e solitudine a Pietroburgo
Chi è abituato al
Dostoevskij padre dell’esistenzialismo letterario, narratore dei vizi e dei
complessi umani, creatore dei “ribelli” nichilisti, troverà in questo libro una
sorpresa, gradevole o no a seconda dei casi. Vi sarà gradita se amate gli
scrittori poliedrici, un po’ meno se preferite il Dostoevskij più noto al
grande pubblico. Le notti bianche è, infatti, un romanzo breve, scritto nel
1848, che non mostra ancora, al lettore, l’autore de: I fratelli Karamazov,
Delitto e castigo, I demoni, Il giocatore o de L’idiota; ma ci mostra l’animo
romantico di un giovane scrittore russo molto promettente.
Il racconto si apre con
un incipit che ci permette di immergerci subito nel clima onirico che, come un
filo rosso, attraversa tutto il libro: « Era una notte incantevole, una di
quelle notti come ci possono forse capitare solo quando siamo giovani, caro
lettore ».
La storia è ambientata
in una Pietroburgo primaverile ma che appare, agli occhi di chi legge, come una
città fantasma. Il personaggio principale conosce bene la sua città: ogni
palazzo gli parla, ogni strada gli fa riaffiorare un ricordo. I palazzi e le
strade, però, sono gli unici con cui lui sembra poter istaurare dei rapporti
poiché, in tanti anni che vive lì, non è riuscito a creare nessun vero legame
di amicizia: « Avevo avuto paura di restare solo, e avevo vagato tre giorni
interi per la città in preda a una profonda angoscia, decisamente senza capire
cosa mi stesse succedendo ».
I due attori di questo
dramma esistenziale passano intere notti insonni seduti su di una panchina dove
aprono i loro cuori mostrando una reciproca empatia. Due giovani che non hanno
contatti con il mondo che li circonda per ragioni differenti. C’è la bella
Nasten’ka, una ragazza semplice e piena di vita, che è, però, segregata in casa
a causa di una nonna cieca troppo severa e preoccupata dell’onorabilità di sua
nipote. Poi c’è il giovane senza nome (probabilmente lo stesso Dostoevskij), un
sognatore dall’animo timido e romantico che si è alienato dal mondo creandosi
una sua una sua realtà parallela costruita leggendo i romanzi di Walter Scott e
le poesie di Shiller, Puskin e Zukovskij. Il suo stesso modo di parlare mostra
il suo animo schivo e riservato, tant’è che, raccontando le sue tristi
vicissitudini all’amica appena conosciuta, prorompe in una sfrenata sequela di
termini ampollosi e ricercati che fanno apparire il suo parlato quasi libresco.
La stessa Nasten’ka dice: «Voi raccontate in modo meraviglioso, ma non potete
raccontare in modo meno meraviglioso? Giacché parlate come se leggeste un
libro». Il suo mondo fantastico, nel quale ha vissuto per tutta la vita, è
diventato un muro che non gli permette di vedere cosa succede oltre, una
cortina che lo isola e gli impedisce di vivere una vita vera. Solo grazie alla
sua dolce compagna di sventura potrà finalmente assaporare qualche briciola di
realtà; solo il prematuro e intenso, seppur quasi puerile, amore che proverà
per lei gli darà la possibilità di fuggire, per un attimo, da quella prigione
fatta di effimero che lo sottrae a tutto e a tutti.
Una storia struggente,
un libello dallo spirito estremamente romantico di un Dostoevskij diverso dal
solito.
Gianluca Mario
L’incomunicabilità nel “muro” di Sartre
Il muro scritto in
Francia nel 1939, appena un anno dopo La nausea, è una delle opere letterarie
più importanti dello scrittore e filosofo francese Jean-Paul Sartre.
Filosofo
esistenzialista, Sartre nasce a Parigi nel 1905. Nell’esistenzialismo di Sartre
si realizza lo stesso paradosso di Heidegger e Jasper, cioè la trasformazione
del concetto di possibilità in impossibilità. La filosofia esistenzialista
presente nell’opera Il muro non analizza la psicologia dei personaggi , ma si
interessa ai loro gesti.
L’opera è una raccolta
di cinque racconti (Il muro, La camera, Erostrato, Intimità, e Infanzia a
capo). Si tratta di narrazioni inquietanti che cercano di mettere in luce le
velleità e le vergogne che l’uomo cerca di nascondere. Sartre descrive
l’individuo come posto di fronte ad un bivio, incapace però di prendere la
strada che potrebbe liberarlo dal carcere, un uomo che non riesce a credere in
una speranza di cambiamento. Il muro diventa così l’emblema della condizione di
isolamento dell’uomo. Infatti tutti i protagonisti dei rispettivi racconti sono
ossessionati dalla difficoltà che hanno nel vivere la situazione assurda dell’esistenza,
difficoltà che li trascinerà verso un’incomunicabilità umana.
Già nel primo racconto
Sartre sottolinea la difficoltà di comunicare. Si riescono a vedere, già nei
primi passi del brano, le difficoltà che hanno i personaggi ad interagire, un
esempio è rappresentato dal primo racconto nel quale le guardie che interrogano
i prigionieri non ascoltano mai le loro risposte, ma si limitano a guardare
dritti davanti a se e a scrivere. Nell’opera i personaggi sono descritti come
sadici o masochisti, hanno bisogno di fare del male o farsi fare del male per
dare un senso alla loro esistenza. L’uomo di Sartre è solo perché si trova di
fronte alla morte. I personaggi sono persone vuote che sono oppresse e
schiacciate dal mondo che li circonda. Ciascuno di essi ha rinunciato a
comunicare con la realtà, come si può notare nel secondo racconto, La camera,
in cui la protagonista è la moglie di un pazzo. Quest’ultima nonostante i
molteplici tentativi dei parenti che la esortavano ad abbandonare l’uomo non lo
farà, perché ormai il suo distacco dalla realtà è troppo ampio e non potrà più
tornare al mondo reale neanche volendo. L’unico dialogo diventa così quello
fatto in solitudine con la propria mente, che li convincerà dell’inutilità
dell’esserci.
Pierpasquale De Fusco
TORMENTI FELLINIANI
“Il
visionario è l’unico realista”, frase famosa di Fellini, è anche una sintesi
della sua poetica: nel suo cinema Federico Fellini ha scardinato le forme e
modalità cinematografiche parlando della realtà che lo circondava ponendo solo
una macchina da presa tra sé stesso e quella che vedeva come realtà. Esagerando
la finzione nel suo cinema, a volte mostrandola esplicitamente come quando ne
“E la nave va” viene inquadrato ad un certo punto il set cinematografico dove
si sta girando il film , è riuscito a rendere il discorso con il pubblico
ancora più onesto, intelligente e stimolante: in una parola realistico,
veritiero. Il cinema di Fellini parla esclusivamente di Fellini, punto. In
questo discorso totalizzante non manca neanche l’incomunicabilità: ne “La strada”
ad esempio è l’incontro/scontro tra la dolce Gelsomina e l’energumeno Zampanò
il fulcro della trama, rapporto che arriva ad una comprensione solo dopo la
scomparsa di Gelsomina con Zampanò che la piange in riva al mare quando ormai è
troppo tardi. Sempre in riva al mare si conclude uno dei capolavori del
regista, “La dolce vita”: vero e proprio mosaico barocco di episodi che possono
essere visti anche come autoconclusivi, ritratto della borghesia romana del
periodo completamente alla deriva morale, “La dolce vita” si chiude con il
protagonista Marcello, paparazzo interpretato da Mastroianni, che dopo una
notte orgiastica passata ad umiliare ed umiliarsi si ritrova con i suoi amici
su una spiaggia dove dei pescatori hanno appena preso una mostruosa manta;
intanto una ragazza dall’aspetto verginale ed innocente chiama Marcello
dall’altra parte della riva. Sono vicini ma lui non capisce cosa dice a causa
del rumore assordante del mare e si allontanerà tornando dai suoi compagni
salutandola con una sorta di rimpianto. In questa scena di una semplicità e
simbolismo disarmanti si ritrova quel muro tra il mondo del protagonista pieno
di falsi valori, ipocrisia e divertimenti borghesi finto-erotici, e un altro
mondo (dell’infanzia o innocenza?) per sempre perduto. In “Otto e Mezzo” il
protagonista è Guido, un regista in crisi creativa e personale alter ego
felliniano: ha un’amante e una moglie che non si decide a lasciare ma non
riesce ad uscire dalla situazione di pessimismo che lo ha sopraffatto. Vuole
girare un film ma non capisce neanche lui quale. Si interroga su sé stesso,
sulla spiritualità, sul passato, fantastica e sogna in un connubio inscindibile
dove l’onirico e il reale si fondono fino al punto di trovarsi sullo stesso
piano. Solo arrivando alla consapevolezza che tutto ciò che ha vissuto e tutte
le persone che ha incontrato, nel bene e nel male, sono parte essenziale della
sua vita Guido ritrova la gioia di vivere e la serenità. E qui scatta il
finale, tra i più famosi della storia del cinema, in cui Guido “dirige” in una
passerella al suono di una fanfara tutte le persone che hanno avuto un ruolo
nella sua vita. Ultimo ad uscire di scena è lui, ma il lui ritratto come un
bambino: ancora una volta la fanciullezza e l’innocenza ritrovati stavolta fortunatamente
in tempo. Sembra chiaro arrivati a questo punto che il muro posto tra
l’artista/Fellini e il resto del mondo sia uno dei punti più importanti del suo
cinema: in “Otto e mezzo” Guido riesce a scavalcarlo, prendendo coscienza di sé
e degli altri in una sorta di accettazione della vita e dei problemi che
comporta. Con “Giulietta degli spiriti” l’incomunicabilità si restringe al
rapporto di coppia: quello tra Giulietta, borghese tormentata dagli spiriti, da
visioni spettrali e dal possibile tradimento di un marito sempre più distante,
che lei non esita a far seguire da detective privati che le portano prove delle
scappatelle. Anche in questo caso lo scioglimento dell’intreccio arriva con
“l’accettazione” degli spiriti del passato che la tormentano; inoltre non deve
sorprendere quanto sia autobiografico in modo sfacciato anche questo film:
all’epoca Fellini tradiva la moglie e Giulietta (Masina) sguinzagliò davvero
degli investigatori privati sul marito. Rapporto complesso quello tra Fellini e
le donne: ora mamme, ora mammone dai tratti mostruosi e giganteschi di cui aver
paura e da cui essere irresistibilmente attratti. Ne “La città delle donne”
parla a suo modo del femminismo, di quanto siano completamente agli antipodi
donne e uomini, probabilmente senza punti di contatto. È questa la fase più
pessimista dell’autore che qualche anno prima aveva girato il suo “Casanova”:
personaggio che paradossalmente detestava a morte, ritratto come una macchina
del sesso meccanico e ridicolo, pantomima inconscia dello stesso Fellini che
dal dongiovannismo era affetto. Andando avanti con la lavorazione della
pellicola poi il regista sembrò entrare in contatto con questa creatura
inizialmente rigettata in modo dispregiativo e resta famosa la sequenza in cui
il Casanova finalmente trova la donna della sua vita, l’unica che possa amarlo
come vuole lui: una bambola meccanica, con cui si ritrova a danzare in un sogno
raffigurante una Venezia cristallizzata. Toccando in tutti i suoi lavori, in
modo più o meno intenso, le barriere tra l’io e gli altri, nell’ultima opera
felliniana “La voce della luna” possiamo ritrovare un forte messaggio, un
testamento artistico: la ricerca di un silenzio consolatorio (quello della
morte?) a dispetto di un caos sempre più asfissiante, rumoroso, involgarito dai
mass media che assumono un ruolo di distruttori della poetica e dei sogni dato
che nel film riescono ad impossessarsi di un pezzo di luna costruendoci sopra
un talk show televisivo (ci aveva visto lungo Fellini, anche in “Ginger e Fred”
la società dei consumi era al centro di critiche tutt’altro che banali).
“Eppure io credo che se ci fosse un po’ più di silenzio, se tutti facessimo un
po’ di silenzio… forse qualcosa potremmo capire “.
Nicola
Laurenza
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Numero precedente:
INTERVISTA A LUCA VALENTE
In un paese come
il nostro in cui tutti i riflettori mediatici sono puntati verso il calcio ben
poco spazio è dato a tutti gli altri sport di squadra che formano l’immenso
panorama delle discipline agonistiche inventate dall’uomo.
Lo scopo del gioco
del lacrosse è quello di infilare una palla di 20 centimetri di circonferenza
in una porta, molto simile a quelle utilizzate nel più famoso Hockey su
ghiaccio, con l’ausilio di una speciale racchetta triangolare dall’impugnatura
molto lunga.
Non è uno sport
per tutti: i ritmi sono veloci, gli urti con gli avversari e i tuffi verso il
duro suolo sono all’ordine del giorno per gli atleti professionisti.
Lo sa bene Luca
Valente, nato a Cassino il primo agosto dell’anno 1989, che da poco ha ricevuto
una convocazione nella nazionale italiana.
Ciao Luca! Forse
dopo questa introduzione potrebbe sembrare incoerente una domanda del genere.
Ma perché proprio il Lacrosse?
La voglia di
provare qualcosa di nuovo! Sono un amante dello sport in generale ed ho giocato
a calcio con la squadra del mio paese, il Sant’Apollinare, fino agli ultimi
anni del liceo.
Arrivato a Perugia
volevo appunto provare qualcosa di diverso. Prima del Lacrosse mi sono
cimentato in diversi sport come pallavolo, giocando con il Cus, e il climbing
(arrampicata) ma alla fine è stato vero amore solo con il lacrosse!
Quando e dove hai
cominciato?
Sono andato a
Perugia per studiare Veterinaria. Non avevo in mente di praticare uno sport.
Diciamo che è iniziato tutto per caso. Alcuni miei compagni di corso avevano
appena incominciato a praticare questo sport, che inizialmente devo dire mi
sembrava anche alquanto bizzarro poiché si gioca con una particolare
racchetta, che tecnicamente si chiama stick. Incuriosito sono andato a vedere
qualche allenamento e da lì decisi di provare a giocare. Fin dal primo
allenamento mi sono divertito tantissimo. C’è da dire che, oltre ad essere uno
sport davvero bello, è anche coinvolgente.
Ci scambiamo
opinioni e consigli per far crescere questo movimento che in italia è nato da
pochissimi anni,pensa che quest’anno inizia solo la quarta edizione
campionato italiano, mentre per la coppa Italia sarà la sesta edizione.
Parlami della tua prima
esperienza da professionista.
Come ti ho già
detto questo sport è appena nato in Italia: siamo solo 9 squadre e il livello
tra i ragazzi italiani non è altissimo rispetto ad altri campionati europei.
Non me la sentirei di catalogarlo ancora come professionistico; ma stiamo
crescendo anche grazie all’aiuto di giocatori stranieri che si trovano in
Italia per lavoro o studio e che mettono a servizio la loro esperienza per far
crescere questo movimento.
Parlando della prima
partita: è stata un disastro. Malgrado il coach mi avesse spiegato fino
all’ultimo secondo come stare in campo ero entrato poco nel gioco: ricevevo
poco la palla e quelle volte che mi capitava di prenderla, subito qualche
giocatore avversario mi stendeva. Giocai solo due quarti del match ma mi
sembrarono un eternità!
A fine partita
credevo di aver fatto una pessima prestazione, al contrario i miei compagni
oltre i complimenti per il coraggio(mi buttavo in ogni mischia per recuperare
la palla) mi hanno fatto capire che le partite disastrose servono tantissimo
per capire dove devi migliorare. Da quel momento il coach, Steven Whitford, mi
ha fatto fare degli allenamenti specifici sulle mie carenze tecniche ed ha
valorizzato le doti fisiche da attaccante. Sono diventato Wing (una specie di centrocampista
esterno, proprio per sfruttare la mia velocità).
Infatti già dalla
seconda partita e in tutte le altre a seguire si notarono i progressi… fino
alle Final Four dove segnai il mio primo goal!
Quando è arrivata la
convocazione in nazionale e come l’hai vissuta?
La convocazione è
arrivata nel modo più inaspettato:, mentre ero su internet il mio coach mi
scrisse “Complimenti per la convocazione”. Inizialmente avevo pensato ad una
amichevole con la mia squadra (i Phoenix di Perugia), ma quando mi fece capire
che era un test-match per la nazionale pensavo che mi stesse veramente
prendendo in giro. Ero felicissimo! Certo era solo un allenamento e non una
partita vera, ma solo il fatto di essere stato notato dopo nemmeno un anno che
pratico questo sport per me è stato motivo di grande orgoglio. Proprio in
questi giorni sono stato convocato per l’ALL STAR GAME di Milano,in pratica è
una partita tra i migliori giocatori delle squadre del Nord contro quelli delle
squadre del Sud,una seconda convocazione in pratica!
Quest’anno ci sono
stati gli Europei ad Amsterdam e la nazionale ha ben figurato, ora si lavora,
me compreso, per il prossimo mondiale a Denver (Stati Uniti) nel 2014.
Non so se ci
riuscirò a partecipare sia per gli impegni che mi riserva l’università, sia
perché la selezione tra i giocatori è davvero dura , ci sono tanti ragazzi che
giocano da molto più tempo ed hanno più esperienza di me...
Ma il 2014 è
ancora lontano, ho fatto molti progressi in un anno,vedremo cosa riuscirò a
combinare nei prossimi due!
Grazie e buona
fortuna!
Grazie a te.
Alberto D’Aguanno
There’s old wave, there’s new
wave…and there’s David Bowie!
Così recitava la storica copertina Rca
di Heroes: uno degli album più
conosciuti di David Bowie. In effetti il “Duca Bianco” è noto ai molti per le
sue provocazioni, la sua eccentricità e le sue follie. Riesce, percorrendo
l’ansia di rinnovamento, soprattutto degli anni ’70-‘80, a farsi portavoce di
un’idea dell’arte assolutamente moderna ed innovativa. Sperimenta in ogni campo
e con ogni mezzo, dal teatro al mimo, passando per la pittura ed il fumetto, ma
soprattutto in ambito musicale. Intercetta un’idea della musica fatta di
contaminazione e di sperimentazione, dalla quale esce, dopo gli acerbi
tentativi londinesi, un prodotto raffinatissimo, a tratti decadente e
futurista. È in musica che Bowie dà il meglio di sé. Geniale precursore delle
tendenze del nuovo millennio, sfrutta a pieno la comunicazione mass-mediatica,
costruendo attentamente i suoi personaggi e veicolando un’immagine di sé androgina,
aliena e scomposta. Quest’idea della spettacolarizzazione dell’arte, invero, non
è manifestazione della più ossessiva foga di gloria, ma gli proviene da una
frequentazione non casuale dei territori teatrali. Funzionali al suo successo
sono stati, soprattutto, gli incontri
con il ballerino e mimo Lindsay Kemp e con il celeberrimo artista Andy Warhol:
da loro apprende e matura quell’estetica dell’ambiguità che lo ha
contraddistinto per decenni. Bowie entra nel mito con l’album Space Oddity, ispirato al capolavoro di
Kubrick, Odissea nello Spazio, e ai
fatti storici dello sbarco sulla Luna. Il singolo omonimo, che ha una versione
italiana dal titolo Ragazzo solo, apre
la strada all’elemento del “fantascientifico”, tanto caro al dandy inglese.
Intanto nel 1971 esce Hunky Dory, in pieno clima hippie. Questi
sono gli anni dei Ramones, dei Cream, dei Led Zeppelin, dei Pink Floyd, ed il
rock, in ogni sua declinazione, veste giacche di pelle, jeans attillati, e
scarponi da rave; sono gli anni dell’eroina, dei trans-gender, dell’Aids, della
Berlino del muro, della Guerra in Vietnam; sono gli anni in cui David Bowie
sconvolge il mondo della musica. Sul palco sale con pantaloncini inguinali, con
stivaletti laccati di vernice rossa, con trucchi, paillettes, boa e lustrini. È
lui l’incarnazione più affascinante di quello che John Lennon ha definito il
“Rock’n’ Roll col rossetto”. Dagli incontri con Trevor Bolder, Mick Woody, Ken
Scott, Bob Dylan, Frank Zappa e Lou Reed nasce il suo capolavoro assoluto,
sintesi delle sue paranoie, delle sue passioni, delle sue finzioni e della sua
arte: The rise and the fall of Ziggy
Stardust and the Spiders from Mars. Bowie mette in scena la caricatura del
divo, l’apoteosi ed il suicidio del mito del Rock. La finzione scenica tuttavia
diviene realtà e Ziggy si trasforma in un essere immortale, e la saga in musica
de(gl)i Spiders from Mars dilaga in
tutta Europa. Segue una stagione di breve declino, dopo l’omicidio di Ziggy e
la nascita del glam Alladin Sane, e
una successiva primavera musicale con l’album Station to Station, con la creazione del nuovo mito del “Duca
Bianco”. Bowie, dopo aver esaurito la parabola glam, passa ad un rock decadente
e commovente, rappresentato da un insopportabile duca, alienato dalla monotonia
della metropoli moderna. Nel 1976, assieme all’allucinato Iggy Pop, Bowie si
trasferisce a Berlino, luogo d’ispirazione per moltissimi musicisti. Nella
città-cuore dell’Europa partorisce la celebre trilogia berlinese, che lo affida
alla gloria musicale, ma tenta anche di uscire anche da un rock lineare (non a
caso la chitarra di Heroes è quella di Robert Fripp) per ricondurre ad una
basica melodia tutte le precedenti alterazioni e distorsioni musicali. Low, Heroes
e Lodger nascono dall’incontro con
l’eclettico compositore Brian Eno, noto ai molti per le collaborazioni con
David Byrne dei Talking Heads, e con Tony Visconti. Le sperimentazioni
risentono molto della cultura afro-americana del rhythm’n’blues, ma sono ancora
molto legate alla new wave. Tuttavia in questa trilogia si può intravedere ed
apprezzare un David più maturo e vagamente romantico, lontano dalle sfrenate
scorribande degli esordi. Intano i primi sintomi della deriva dance iniziano a
farsi sentire, sia nei temi che nei suoni: esce Scary Monsters che anticipa Let’s Dance. -Unica eccezione?- Il
singolo Ashes to ashes: un commovente
inno di dolore per la fine del Maggiore Tom, ormai ridotto ad essere un
tossico-Pierrot, depresso e vagabondo. Dopo Never
let me down e Tonight, inframezzati
dal successo di Under Pressure
collezionato con i Queen, la ripresa avviene molti anni dopo con i due album Black Tie white Noise e The Buddha Of Suburbia (che non ha nulla
a che vedere con i pivellini Green Day), frutto di una fase di tranquillità
della vita di Bowie, forse dovuta al matrimonio con la modella somala Iman
Abdulmajid, tuttora sua moglie. Nonostante gli ultimi capolavori, Outside e Earthling, il divo Bowie rimane quello dei controversi anni
’70-’80, quello che forse meglio di tutti è riuscito a cogliere il valore delle
immagini, traducendolo in suono e spettacolo, quello sexy e provocante, con la
sua voce strozzata e le calzamaglie spaziali. Difatti il suo recente ritorno
sulle scene, con il nuovo album The Next
Day, anticipato dal singolo Were are
we now?, non ha scosso le folle, non ha mandato in delirio le piazze, non
ci ha restituito scene di ragazzine focose e impazzite. Bowie ormai è un
anziano signore del quartiere Nobo, ritirato a vita privata e con una routine
apparentemente normale -anche se parlare di normalità per l’ormai longevo Duca
è cosa assai rischiosa-. L’uscita dell’album è stata (quasi) accompagnata da una lunga intervista del tabloid britannico
The Sun alla ex-moglie Mary Angela Barnett, la quale rivela particolari
scottanti sulla storica “notte di sesso a tre” con il celebre Mick Jagger. –Eh,
anche questa è arte!-
Virginia Machera
INTERVISTA AGLI AURA
Alla scoperta di band
emergenti ho avuto modo, e soprattutto il piacere di conoscere Oliviero Fella
del quartetto rock “Aura”, un gruppo emergente con 3 dischi all'attivo e
svariate partecipazioni a festival di rilievo in giro per l'Italia.
A cosa è dovuto il nome "AURA"? c'è un significato
particolare ?
Ciao Francesco! Il nome Aura in realtà non significa nulla in particolare, semplicemente suonava bene e ci piaceva. La band è composta da 4 elementi. Io (Oliviero Fella- Chitarra solista e cori), Ugo Cappadonia (Voce e chitarra ritmica), Paolo Urbano(Batteria) e Camilla Boschieri (Basso).
Ciao Francesco! Il nome Aura in realtà non significa nulla in particolare, semplicemente suonava bene e ci piaceva. La band è composta da 4 elementi. Io (Oliviero Fella- Chitarra solista e cori), Ugo Cappadonia (Voce e chitarra ritmica), Paolo Urbano(Batteria) e Camilla Boschieri (Basso).
Avete un curriculum di tutto rispetto, Vincitori e finalisti di vari contest in giro per l'Italia, sono state esperienze costruttive ? vi hanno aiutato in qualche modo ?
Indubbiamente queste esperienze aiutano a conoscere colleghi ed addetti ai lavori oltre a formare ognuno di noi. Ad esempio è stato in occasione della vittoria a Rock Targato Italia e la conseguente esibizione al MEI di Faenza che ci ha fatto incontrare Red Ronnie, uno dei pochi a crede davvero nella musica emergente. Ma non bisogna attendere di certo il contest. Suonare è sempre, e ripeto SEMPRE, costruttivo. Anche suonare in un piccolo Bar dove ci si entra a mala pena. A volte è anche meglio suonare lì, in un ambiente più intimo. Può succedere di tutto. La scorsa estate suonavamo in un locale al centro di Milazzo (ME). Una gran serata davvero… a fine concerto abbiamo ricevuto i complimenti da Francesco Sarcina (Le Vibrazioni) presente tra il pubblico, con il quale siamo ancora oggi in contatto.
Invitati più volte al famigerato "Roxy Bar" di Red Ronnie, dove si sono esibiti gruppi di un certo spessore, com è stato suonare sullo stesso palco di: Robert Plant, Placebo, Radiohead, Vasco Rossi, Jovanotti?
Suonare in palcoscenici così imporanti è una grande opportunità. Ovviamente l’emozione è sempre tanta. Ci siamo esibiti diverse volte da Red Ronnie, anche in occasione del Motorshow credo del 2008. E’ un palcoscenico importante e lui è davvero una gran persona. Lo ringraziamo per quello che ha fatto per noi e per l’opportunità che ci ha dato. E’ uno dei pochi a fare qualcosa di concreto per la musica emergente.
A chi vi ispirate? Quali sono i vostri gruppi/cantautori preferiti ?
Il marchio degli Aura è di stampo britannico ed è proprio su queste influenze che riusciamo ad essere un tutt’uno anche avendo ispirazioni diverse per la musica non-brit. Io personalmente son cresciuto a pane e Brit-Pop, genere che ancora ascolto con piacere. Su tutti gli Oasis, i Kasabian, gli Stereophonics, i Primal Scream, gli Stone Roses, i Coldpaly, i Travis ed i Blur. Ma essendo un chitarrista ovviamente ascolto e traggo spunto artisti di matrice chitarristico-leaderistica, i guitar hero per intenderci. Senza dubbio il mio chitarristmo è ispirato da Stef Burns, uno dei pochi in grado di emozionarmi ad ogni singola nota, il migliore in assoluto. Insieme a Stef, anche Eric Clapton e Jimi Hendrix che considero i miei “Dei” della chitarra, su tutto e tutti. Il blues dei grandi maestri Robert Johnson, Buddy Guy, John Lee Hocker e Steve Ray Vaughan. Ma non tralascio Knopfler, Page, Sambora, Perry, Slash ed anche i virtuosi ascoltati nel periodo adolescenziale dei quali però attualmente continuo a seguire solamente Joe Satriani.
Da "Problematiche lontane" all' ultima fatica appena uscita "Dipende da come lo usi", cos'è cambiato ?
Con “Dipende da come lo usi” siamo al terzo album. Dal primo sono cambiate numerose cose sia sul piano musicale che sul piano umano. Abbiamo cambiato formazione e quindi componenti. Abbiamo deciso per un’autoproduzione artistica piuttosto che un produttore con gusti ed idee divergenti dalle nostre. Abbiamo abbracciato più fortemente il brit e consolidato il concetto: Suoniamo quello che ci piace!
La collaborazione con i SickTamburo, condividere il palco con
Marlene Kuntz, Giogio Canali e Paolo Benvegnù vi è servito per acquisire
esperienza essendo a contatto con questi grandi musicisti del panorama
italiano?
Sono delle gran personalità. Artisti che sanno cosa significa
essere nella nostra condizione di emergenti e conoscono perfettamente i
sacrifici che facciamo. La famosa gavetta, che poi non è altro che macinare
chilometri su chilometri per poter suonare e con le tue note raccontare chi
sei…Gianmaria dei Sick Tamburo lo abbiamo conosciuto in un Festival nel quale
(fortunatamente) dividevamo il palco. Da li è nata un’amicizia che dura
tutt’oggi. Ha partecipato anche al nostro videoclip “La forma della mia faccia”
presente sull’album Si avvicina Lunedì. Insieme a Lui hanno partecipato Ilenia
Volpe e Beatrice Antolini. E’ stata una grande esperienza.
La differenza tra artisti
che hanno fatto la cosiddetta gavetta e chi non l’ha fatta è evidente
soprattutto sul rapporto umano che instaurano con gli emergenti.
Siamo rimasti in contatto
anche con Paolo Benvegnù, una persona davvero umile e simpaticissima con il
quale abbiamo condiviso il palco in un noto locale di Parma.
Il mercato musicale è sempre più in crisi, la colpa è solo di internet (che permette di scaricare addirittura intere discografie di artisti), oppure della tassazione (iva, siae ecc) che aumenta sempre di più ?
Bell domanda. Io credo che la colpa sia da attribuirsi a diversi
fattori. Internet sicuramente non ha aiutato ma credo che il problema sia da
attribuirsi ad un utilizzo errato. Non ci basterebbero altre 5 vite per
ascoltare attentamente tutte le discografie scaricate.
Purtroppo siamo portati a pensare che la musica sia una cosa
dovuta, e quindi fruibile gratuitamente sempre e comunque. Siamo onesti con noi
stessi, non è solamente non scaricando musica che non alimentiamo questo
mercato. Bisognerebbe creare più interesse nelle persone e allo stesso tempo
far capire i sacrifici che ci sono dietro questa forma d’arte. Bisognerebbe
andare a concerti, pagare un biglietto per ascoltare musica live! Ma non basta,
la musica ha bisogno di una svolta. Internet ha “rovinato” il mercato musicale
e inevitabilmente sta tagliando completamente fuori le etichette indipendenti e
mettendo in seria difficoltà anche le major. Non so cosa accadrà ma senza una
svolta non vedo un futuro sereno per il mondo della musica.
"Dipende da come lo usi" può essere considerato la
definitiva consacrazione per gli AURA ?
Dipende da come lo usi è il lato sincero degli Aura. Non che i due album precedenti non lo fossero.. ma in quest’ultimo siamo noi stessi. Suoniamo come ci piace, con gli strumenti che amiamo, con le nostre influenze senza contaminazioni da parte di terzi. Sapevamo quello che volevamo e l’abbiamo fatto…. in tempi record tra l’altro... 10 giorni!!! La consacrazione definitiva degli Aura? Sicuramente è un disco che ci rappresenta al 100%, se è la consacrazione non spetta a me dirlo.
Dipende da come lo usi è il lato sincero degli Aura. Non che i due album precedenti non lo fossero.. ma in quest’ultimo siamo noi stessi. Suoniamo come ci piace, con gli strumenti che amiamo, con le nostre influenze senza contaminazioni da parte di terzi. Sapevamo quello che volevamo e l’abbiamo fatto…. in tempi record tra l’altro... 10 giorni!!! La consacrazione definitiva degli Aura? Sicuramente è un disco che ci rappresenta al 100%, se è la consacrazione non spetta a me dirlo.
Come avete fatto a creare questo bel sound ?
Nel booklet del disco c’è scritto: “I suoni che ascoltate
provengono esclusivamente da corde, pelli e metallo.” Penso che questo sia il
segreto, che poi segreto non è. E’ solamente suonare nella maniera più naturale
possibile. Abbiamo preferito non affidarci al digitale e ai plug in optando per
fare le cose alla vecchia. Per dirla in termini non tecnici. Collega la
chitarra all’ampli e suona.
Ho ascoltato il disco e mi è piaciuto molto, è una ventata fresca di novità e non le solite banali "canzonette" che girano per radio (per fortuna), quanto è difficile per un gruppo come gli Aura fare musica di "mestiere", in un paese dove regnano i "prodotti" dei reality show?
Viviamo un periodo storico nel quale è davvero difficile poter
vivere solo di musica. Organizzare un tour e quindi vendere il tuo disco, la
tua arte, è una delle difficoltà che riscontriamo quotidianamente. A contatto
con gestori che pretendono che da musicista ti vesta anche da PR per garantire
la giusta affluenza di persone. Improvvisati direttori artistici che pretendono
di pagarti a percentuale sugli incassi ignorando completamente le spese per gli
spostamenti e via di scorrendo. E’ una triste realtà che diventa dramma se
nelle vesti di tali direttori artistici ci sono musicisti nella tua stessa
posizione. Se un locale non ha i soldi o semplicemtne non vuol rischiare, basta
non fare serate live. Mi sembra molto semplice e logico.
Fortunatamente non è
sempre così, abbiamo trovato spesso persone e gestori molto gentili e davvero,
DAVVERO, interessati alla musica live. Per citarne alcuni: Bar Teddy
(Valvori-FR), Rockerilla (ME), il Covo Club ed il Lab 16 (BO), Contestaccio
(RO), ma ce ne sono tanti, tanti altri.
Per quanto riguarda i reality mi riallaccio al discorso
discorgrafico. Ovviamente una major preferisce investire su un’artista apparso
in tv per 5 mesi di fila che non su un’artista emergente. C’è poco da dire a
riguardo. Viviamo nell’era dei reality della musica, della cucina, della
medicina...
La canzone che ha catturato di più la mia attenzione è stata
"Charlie Runkle", mi ricorda un personaggio di un telefilm, come mai
questo tributo? Perche proprio lui?
Charlie Runkle è un mito. Per chi non lo conoscesse è l’agente
del protagonista Hank Moody nella serie Californication. Senza dubbio una tra
le mie preferite! Questo brano mi è molto caro poiché ho curato totalmente
l’arrangiamento. Il nome è stato scelto in maniera casuale, ma non è
propriamente esatta come affermazione. Mi spiego meglio. Le demo in fase di
pre-produzione vengono salvate con il nome che poi verrà utilizzato nel disco
vero e proprio. Quando il titolo non è stato ancora deciso si sceglie un nome
casuale. In quel periodo eravamo alle serie 5 di Californication e d’istinto scrivemmo
CHARLIE RUNKLE. In questa serie Charlie non si comporta come dovrebbe nei
confronti di Hank…che è un po’ ciò che è capitato con gli Aura e vecchi
agenti-produttori. Per questo la canzone parla di questi personaggi senza
scrupoli, di queste persone avide e pronte a tutto . Charlie Runkle è stato un
nome casuale, ma forse non troppo.…
Grazie per l’intervista Francesco e un saluto a tutti Rock on!!! Oliviero.
Il grande Frank Zappa diceva: “Parlare di musica è come ballare di architettura”, quindi non vi resta che andare a conoscerli meglio su: youtube, facebook o sul loro sito ufficiale www.auraofficial.net .
Francesco Sacco
LA MUSICA DI FABER A CASSINO
IL CAMPUS FOLCARA OSPITA L’EVENTO
"Anche se vi
credete assolti siete per sempre coinvolti". Questo il titolo del concerto
live che si tiene mercoledì 24 aprile ore 16.00 nella Biblioteca universitaria
di Cassino (Campus Folcara).
Come il verso citato fa suppore,
l’evento è stato organizzato per ricordare una delle figure più importanti del
panorama musicale italiano del secolo scorso: Fabrizio De André.
Il verso è tratto da una nota canzone
del cantautore genovese, La canzone del
maggio, che fa parte dell’album Storia
di un impiegato del 1973. Mai titolo fu più azzeccato, a mio modesto
avviso, visto che in esso si esplicano gli ideali politici di Faber. De André
infatti, pur essendo nato in una ricca famiglia genovese, fu un convinto
anarchico che andò sempre contro le convenzioni sociali e il perbenismo. Questo
album, scritto durante gli anni di piombo, è l’espressione più forte di
quell’ideale politico e, in particolare, lo è La canzone del maggio grazie alla quale Fabrizio denuncia tutti
coloro che si fanno da parte quando c’è da scendere in campo, tutti quelli che
si sottraggono al loro dovere; attacca la linea grigia composta, in prevalenza,
dal ceto piccolo borghese che non vuole problemi e che fa di tutto per vivere
tranquillo. De André ammonisce quella classe di ignavi che credono che dopo i
moti del ’68 tutto sia finito senza sapere che già tutto è cambiato:
E se vi siete detti
non sta succedendo niente,
le fabbriche riapriranno,
arresteranno qualche studente
convinti che fosse un gioco
a cui avremmo giocato poco
provate pure a credevi assolti
siete lo stesso coinvolti
le fabbriche riapriranno,
arresteranno qualche studente
convinti che fosse un gioco
a cui avremmo giocato poco
provate pure a credevi assolti
siete lo stesso coinvolti
Ben vengano, dunque, eventi di questo tipo (tra
l’altro a ridosso di un’importante ricorrenza qual è il 25 aprile) che permettono
agli studenti di conoscere più da vicino un grande intellettuale che
meglio di altri ha saputo leggere la realtà del suo tempo ed è stato capace di
spiegarla a tutti cantando il suo disagio e quello della sua generazione.
Gianluca Mario
“LE INTERMITTENZE DELLA MORTE” DI
JOSÈ SARAMAGO
“...se non riprenderemo a morire
non abbiamo futuro.”
Cosa succederebbe se un giorno qualunque
in una nazione qualunque, all’improvviso, la morte decidesse di fare sciopero?
Se da domani non si morisse più? È quel che accade in questo romanzo di José
Saramago, premio Nobel portoghese tra i più grandi scrittori del ‘900. La
situazione che descrive con una lucidità disarmante è certo assurda,
irrazionale, inverosimile ma come dice egli stesso “ho bisogno che il lettore
accetti la mia proposta (impossibile). Se lo fa , vi posso assicurare che tutto
diventa implacabilmente logico”. E come un mago Saramago racconta una storia
tanto incredibile quanto reale, aiutato dalla sua solita prosa fiume che
scavalca le regole sintattiche e usando solo punti e virgole in modo personale
(nessun punto esclamativo, né interrogativo, né virgolette ad introdurre
dialoghi, ma tutto è comprensibile lo stesso). Un romanzo,” Le intermittenze
della morte”, diviso distintamente in due parti: la prima è quasi da
documentario o trattato sociale, in cui ci vengono rivelati con dovizia di
particolari e rimandi alla società odierna gli effetti che avrebbe un eventuale
sciopero della morte, tirando in ballo non senza ironia dissacratoria politica,
chiesa, mafia e popolazione. La scrittura di Saramago è acuta, divertente, non
ha paura di esporre opinioni personali e di mettere l’uomo al centro del
discorso acutizzando tutte le sue fragilità, né di guardare con maliziosità
alle istituzioni religiose. Non è un mistero che la chiesa cattolica abbia
sempre osteggiato lo scrittore, d’altronde, che oltre a professarsi ateo ha
sempre provocato in maniera brillante nelle sue opere non solo politiche e
sociali ma anche a sfondo religioso (tra queste “Il vangelo secondo Gesù Cristo”,”
Caino”) ma che soprattutto parlano di umanità. E nella seconda parte del
romanzo, infatti, la prospettiva cambia quasi improvvisamente e la vicenda si
fa più intima, diventa una storia romantica nonché un inno alla vita.
Letteralmente la chiusura di un cerchio visto che le ultime parole del libro
sono anche quelle che lo aprono: ma come cambia il senso a fine lettura di
quelle identiche parole, tanto che si rimane commossi e con un brivido ad
osservarle senza staccarne gli occhi. Nelle opere di uno scrittore tanto grande
non è la prima né l’unica volta che capita ma si rimane sempre meravigliati di
come riesca con tanta semplicità a raccontare di temi tanto complessi, e di
come riesca a riportarli indietro all’uomo dalla coltre oscura e dogmatica in
cui erano intrappolati.
Nicola Laurenza
L’ultima
regola di Cascione è da tenere a mente
Ecco, io, mentre scrivo, vorrei dirvi per prima
l'ultima regola di Cascione, perché uno dovrebbe tenersela a mente sempre,
dovrebbe scriversela a penna o stamparsela: una cosa di quelle da non
dimenticare mai.
Ma si sa: a parole e lezioni da non dimenticare mai ci
si arriva dopo lunghe attese, dopo prove, anche dopo cadute rovinose, anzi, dopo
atterraggi rovinosi: ci vogliono tempo e pazienza, determinatezza. La saggezza
è una conquista …
A voi, però, per imparare, per conoscere questa perla
di saggezza, basterebbe leggere il libro di Marco Marsullo, Atletico Minaccia Football Club, e
questa piccola verità vi arriverebbe nel giro di duecento pagine (duecentouno,
per essere esatti).
Visto che, appunto, la saggezza è una conquista
graduale, e voi non siete dei lettori infami, leggerete tutto il libro: uno
potrebbe anche sfogliarlo al volo in libreria, aprire a pagina duecentouno,
aumentare la propria saggezza e tornarsene a casa: potrebbe, ma non mi sembra
una cosa saggia da fare, appunto.
Una buona cosa, invece, sarebbe leggerlo tutto e
sapere come Vanni Cascione sia arrivato a questa sua settima regola, e sapere –
anche e soprattutto – chi è Vanni Cascione: un allenatore di provincia senza
speranza che ha collezionato esoneri e sconfitte, che si trova tra le mani
un'armata Brancaleone; un Mourinho dei poveri che si dà delle regole, un po' a mo' di Fight
Club.
Le regole servono, ovvio, anche quelle di Cascione,
perché aiutano schierarsi con nettezza nei momenti d'incertezza; aiutano a
prendere una posizione: mai sottovalutarle. Per esempio, quando stai perdendo
una partita, ricordati che: «non importa quanti gol prendi in una giornata
storta, ma quanti altri ne potevi prendere se la partita non fosse finita»
(questa è la terza regola di Cascione,
ricordatevela).
Cascione dice pure che «non esistono partite
amichevoli, esistono solo partite da vincere. Il fair play è un'invenzione dei
Testimoni di Geova e dei preti d'oratorio». Proprio così. Del resto, nella vita
non esiste il pareggio, si diceva in un film.
Cascione ha delle regole, sì, ma Cascione ha
soprattutto un mito: Josè Mourinho.
Josè Mourinho è il mito da non perdere (quasi) mai di
vista: «cosa farebbe, al posto mio, Josè Mourinho?» si chiede in continuazione
Vanni, trasformandosi nello Special One, compiendo miracoli, motivando la sua
squadra con discorsi alla Ogni maledetta
domenica, a volte dopo il suo
benedetto Domenico, Mimì, che con i suoi modi sa essere molto convincente e può
dare una mano («Facite silenzioooo! Mannaccia allu demoniooo!»), per esempio
per dividere i giocatori dopo una zuffa.
Del romanzo di Marsullo ti restano le similitudini
d'effetto, divertenti («il vento caldo di Mondragone mi avvolse come cellofan»;
«magro come un etto di bresaola»); ti restano i personaggi, caricature d'essere
umani, come se ne trovano, però, tantissimi nella vita; ti restano gli oggetti,
i vestiti, gli accessori («il sector pezzotto»; «la canottiera pezzotta»), ti
resta una provincia campana esagerata eppure vera, coi suoi bagni, coi suoi
bar, con i suoi campi di calcio.
Ma com'è questa squadra? In realtà, dovete proprio
leggerlo, quindi continuo a dirvi nulla …
Però vi dico che l’Atletico Minaccia è la squadra di
Nino che corre come una scheggia e ha una «carnagione olivastra che rivelava
intere giornate passate a scagliare palloni contro la saracinesca di un box
auto»; di Antonio Pisapia che ha un nome che ricorda L'uomo in più: quarantré anni (un po' vecchio per giocare a
calcio); due stagioni da comprimario nel Torino di Mondonico; giocatore che
nella sua carriera ha superato solo due volte la linea del centrocampo: non
male; poi c'è Spugna che parla per citazioni e ha un passato da campione a
Sarabanda («e prendere a pugni un uomo solo perché è stato un po’ scortese, -
cantava dondolandosi, - sapendo che quel brucia non son le offese…»); poi c’è
Papatoccia «nu’ pitbùll con i piedi di Zico»: una bella squadra, senz’altro.
È «la sregolatezza che non ha a che fare col genio»
che Marsullo cita in esergo da Santa
Maradona, è sregolatezza pura, epica per niente sublime o eroica, che
racconta come Vanni Cascione non si faccia scappare l'unica, vera occasione
della sua vita per essere ricordato come un allenatore vincente.
Certo all'Atletico Minaccia, come dice Cascione a Lucio Magia, «serviva qualche caso umano in
meno e qualche professionista in più», ma poco importa e poi «un giocatore lo
vedi dal coraggio, dall'altruismo, dalla fantasia» (cantava quello, come del
resto ricorda Spugna), un allenatore anche, uno scrittore pure: «non si è
scrittori perché si è scelto di dire certe cose, ma perché si è scelto di dirle
in un certo modo» (questo è Sartre), Marsullo ha scelto un certo modo, «cento,
cento» (direbbe Vanni) e a me è piaciuto (dico io), e questa non è una
recensione, per carità, ma è solo un modo per dirvi da questo blog ripostiglio:
leggetelo.
Tamara Baris
Marco
Marsullo è nato a Napoli nel 1985. Atletico
minaccia football club, Einaudi, 2013, è il suo primo romanzo, e magari la
vostra prossima lettura.
Ps
non è una recensione ma un post comparso sul blog http://ifioribluunpopiuchiari.blogspot.it/
PANTA REI
CONTINUO FLUIRE E LOTTA PER LA VITA
CONTINUO FLUIRE E LOTTA PER LA VITA
Chi almeno una volta
nella vita non ha utilizzato o sentito la frase “panta rei” (tutto scorre)?
Probabilmente come consolazione nei momenti bui o magari per mettere una pietra
sopra ad un amore appena concluso, insomma un modo come un altro per dire che anche
gli attimi più drammatici passeranno. Fu un filosofo greco di nome Eraclito il
primo ad usare quest’espressione, ma limitare il panta rei ad un semplice
“tutto scorre” diventa abbastanza riduttivo: in realtà la frase del filosofo
originario di Efeso si trascina dietro uno dei concetti più affascinanti e
significativi della filosofia antica. L’uomo è in continuo fluire, in perenne
mutamento e in costante movimento. In uno dei frammenti che ci sono pervenuti
Eraclito scrive che non si può scendere due volte nello stesso fiume poiché le
sue acque mutano col passare del tempo. Così come il fiume descritto dal
filosofo, scorre la vita dell’uomo e ogni attimo passato sarà sempre diverso
dal precedente e da quello che verrà; l’individuo non può essere più identificato
nel presente ma deve essere concepito in continuo divenire ed è nel divenire
infatti che è racchiuso il significato del panta rei eracliteo. Eraclito pone
come simbolo del divenire il fuoco: - Il mondo non è stato generato dagli Dei
ma dal fuoco e sarà sempre il fuoco a dargli l’ultimo respiro -. La scelta del
fuoco non è certamente casuale dal momento che in nessun altro elemento della
natura si può vedere meglio la legge eraclitea del cosmo come realtà in
continua trasformazione. In alcuni frammenti si nota che Eraclito non
concepisce il fuoco come un elemento fisico ma come un’entità divina dalla
quale tutto nasce e tutto si distrugge. Ma in che cosa consiste il “divenire”?
Il divenire è il frutto della lotta tra gli opposti, come luce e buio, notte e
giorno o amore e discordia, è attraverso questi contrasti che si genera la
vita. La natura non sta mai ferma, anche le cose che apparentemente sembrano
immobili sono in continuo movimento, non esiste nulla in natura che non sia
governato dall’eterna contesa. Il fulcro di questa contesa è ciò che Eraclito
definisce “logos”, una parola che custodisce più di un significato come verità,
ragione o anche Dio stesso. Si potrebbe definirla come una sorta di lieto fine.
La pace in natura è sinonimo di morte e del resto come dargli torto? Non esiste
sazietà senza fame, non potrebbe esistere il giorno senza la notte, non si
possono trascorrere attimi di felicità se prima non si conosce la sofferenza.
Ogni cosa dunque è destinata a cambiare o, come direbbe Eraclito a “divenire”:
si trasforma il mondo che ci circonda, un fiore appassisce, uno scoglio si
corrode, cambiano le persone e con loro paure, speranze, sogni e così via,
panta rei, tutto scorre.
Pierpasquale De Fusco
QUANDO VIAGGIARE È SINONIMO DI CAMBIARE
Uno dei temi più
sfruttati dalla letteratura occidentale è quello del viaggio. Da Omero in poi
il viaggio è stato usato molto frequentemente dagli scrittori più celebri che
si sono susseguiti nel corso dei secoli.
Ma cos’è un viaggio?
Uno spostamento, un percorso, un itinerario... ma non solo. Nel significato del
termine viaggiare è implicito quello dell’attraversare, del percorrere, il che
presuppone un qualcosa da attraversare e percorrere, un qualcosa che non è
sempre e solo uno spazio fisico, un luogo geografico, quanto forse più spesso
uno spazio psicologico, un luogo della memoria, l’ambito dei ricordi e del
pensiero.
Il muoversi, lo
spostarsi dal luogo in cui si è nati implica un allontanamento da ciò che ci è
più familiare, un distaccarsi dal nostro passato. Quindi il viaggio, in se,
presuppone coraggio. Coraggio di partire, di incontrare facce nuove, nuove
culture e tradizioni, coraggio di affrontare nuove avventure e nuovi problemi,
il coraggio di decidere che strada prendere quando ci troviamo di fronte ad un
bivio. Il viaggio è allora cambiamento, un cambiamento che può portare il
viandante a migliorarsi o viceversa ad annientarsi.
La necessità di andare da qualche altra parte,
infatti, sorge in noi quando ci sentiamo oppressi dal luogo che fino ad allora
ci aveva custodito, quando ciò che ci circonda ci ha deluso oppure non ci basta
più. Sentiamo il desiderio di partire quando la solita routine ci fa avvertire
un senso di incompiutezza, quando le solite facce ci hanno stancato, quando ci
sentiamo scorrere la vita addosso e abbiamo la sensazione che la stiamo
sprecando rimanendo statici nel nostro nido come uccelli che non vogliono
spiccare il volo.
Ma viaggiare significa
anche ritornare, significa nostalgia di quei luoghi che ci hanno visto
pronunciare la nostra prima parola, fumare la nostra prima sigaretta o dare il
nostro primo bacio. Si dice spesso che l’amore per la propria terra si prova solo
quando si è lontani da essa, ciò è sicuramente vero. E allora ci si rimette in
cammino, come Ulisse, e si cerca di tornare tra mille fatiche alla tanto
agognata Itaca che ci attende alla fine del nostro viaggio.
Come si diceva qualche
rigo più in alto, il viaggio non è solo un itinerario reale, materiale, ma è
anche un percorso psicologico che ogni uomo affronta, un difficile cammino che
ha come meta i nostri obbiettivi. Per molti questo cammino è tortuoso: pieno di
buche, di dossi e cunette, magari stretto, sterrato e pieno di fango. La strada
però non deve abbatterci perché le vie che percorreremo nel corso della nostra
vita saranno sempre impervie, piene di sorprese inaspettate che ci costringono
a prendere una strada più lunga. Quello che importa però è che seppure cambiamo
strada la destinazione deve rimanere immutata. Avvolte basta munirsi di caparbietà,
coraggio e tanti sogni per raggiungere traguardi inimmaginabili.
Gianluca Mario
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