Nota
L’evento
politico più rilevante del mese scorso, in Italia, è senza dubbio la nascita
del governo Letta. Frutto dell’accordo tra Partito democratico e Popolo della
Libertà, esso vede la luce all’indomani di una tornata elettorale che non ha
decretato dei veri e propri vincitori, ed ha lasciato il Paese senza una
maggioranza in grado di esprimere una squadra di governo. Dopo quasi due mesi
di tentativi di accordo tra il Pd ed il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo (con
Pierluigi Bersani che ripetutamente ha manifestato la volontà di dar vita ad
un’intesa ed i pentastellati che hanno sistematicamente rifiutato) e la
burrascosa rielezione di Giorgio Napolitano alla Presidenza della Repubblica,
infatti, le due maggiori forze politiche del Paese hanno intrapreso un
difficile cammino comune. Non potevamo, però, esimerci dal parlare della morte
di Giulio Andreotti. Si tratta, certo, di un fatto privo dello stesso rilievo
politico, ma indubbiamente meritevole d’attenzione per via delle sue
implicazioni storiche e culturali. Andreotti è stato, infatti, una delle figure
cardine della cosiddetta Prima Repubblica, ed al suo nome si legano gran parte
di quei misteri d’Italia rimasti a tutt’oggi irrisolti. Abbiamo, inoltre,
voluto ricordare con una nota il fatto che nel mese di maggio è ricorso il
ventunesimo anniversario della strage di Capaci, in cui trovarono la morte il
magistrato Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli uomini della
scorta. Non potevamo farne a meno.
Governare in uno “stato d’eccezione”
Il “governo
dei tecnici” di Mario Monti aveva, oltre al fatto di non essere composto da
politici, tre caratteristiche specifiche. La prima: la maggioranza parlamentare
che lo teneva in piedi non era frutto del voto popolare. La seconda: quella
maggioranza era composta dal Partito democratico, dal Centro moderato e dal
Popolo della Libertà. La terza: il tutto era chiaramente frutto della volontà
del Presidente della Repubblica. Tutto questo era avvenuto in maniera
perfettamente legittima – ci furono regolari consultazioni –, ma di certo non
rappresentava una situazione ideale dal punto di vista delle politiche
democratiche, e poteva essere considerato conseguenza di uno “stato di
necessità” o “stato d’eccezione”.
Il
“governissimo” Letta-Alfano, a differenza del governo Monti, è costituito
integralmente da politici – sia pure di “seconda fila” –, ma presenta tre
caratteristiche specifiche. La prima: la maggioranza parlamentare che lo tiene
in piedi non è frutto del voto popolare. La seconda: quella maggioranza è composta
dal Partito democratico, dal Centro moderato e dal Popolo della Libertà. La
terza: il tutto è chiaramente frutto della volontà del Presidente della
Repubblica. Tutto questo è avvenuto in maniera perfettamente legittima – si
tratta di un “governo del Presidente”, dotato di precedenti nella storia
repubblicana –, ma di certo non rappresenta una situazione ideale dal punto di
vista delle politiche democratiche, e può essere considerato conseguenza di uno
“stato di necessità” o “stato d’eccezione”.
Tutto
questo dimostra una cosa molto semplice: che lo “stato di necessità” o “stato
d’eccezione” non è stato superato, ed anzi ci siamo ancora immersi fino al
collo. E d’altro canto anche chi ritiene – come Beppe Grillo, Nichi Vendola
ecc. – che questi governi non siano nati per risolvere i problemi che li hanno
generati ma solo per tutelare interessi di vertice ed affossare la democrazia
non fa altro che confermare quanto qui si sta dicendo, e cioè che essi nascono
a causa di uno “stato di necessità” o “stato d’eccezione”.
****
Ora,
non è difficile osservare che, se in un anno e mezzo sono ben due i governi ad
insediarsi senza essere espressione del voto popolare, è, per dirla in modo
improprio ma chiaro, la regola della democrazia quella a cui la nostra situazione
fa eccezione. Ma una volta detto questo dobbiamo chiederci: di che natura è
questa eccezione? Ovvero: è un golpe, il frutto di un complotto ordito da una
schiera di tecnocrati, oppure una crisi economica che si sta trasformando in
crisi politica? Io credo, purtroppo, che la risposta più esatta sia la seconda.
E dico “purtroppo” perché se fosse in atto un golpe o un complotto saremmo in
presenza di un ordine – certo del tutto indesiderabile: ma comunque un ordine,
una forma di controllo della situazione –, mentre l’impressione che ho è che il
nostro presente proceda in maniera del tutto disordinata.
Perché
il governo Monti nacque, fondamentalmente, per una questione di tempi. La bolla
speculativa dell’estate 2011 aveva fatto lievitare il nostro (ormai famigerato)
spread, e saldare i Btp in scadenza entro la fine del 2012 richiedeva
interventi immediati, altrimenti il rischio era il default. Quindi non si
poteva attendere l’esito di una campagna elettorale, e bisognava agire
tempestivamente. E non si può dire che l’azione del governo Monti non abbia
soddisfatto questi requisiti. Al contrario lo spread è crollato (anche grazie a
Mario Draghi), non c’è stato alcun default e le nostre finanze pubbliche sono
tra le più virtuose d’Europa. Il punto è che, per ottenere questo, il “governo
dei tecnici” ha aggravato la situazione recessiva di un Paese che già si
trovava in sofferenza nel momento in cui esso si è insediato. Il che, detto in
soldoni, significa: ha peggiorato le condizioni di vita degli italiani. E questi
ultimi, quando s’è trattato di andare a votare, nel febbraio scorso, non hanno
scelto nessuno perché, in concreto, di nessuno si fidavano davvero:
l’astensionismo è cresciuto del 5% ed i voti espressi non hanno dato a nessuna
delle tre grosse forze politiche in campo il diritto di formare un governo. Non
c’è da sorprendersi, vista la questione sociale venutasi a creare.
Quindi,
che fare per dare un governo al Paese? In una situazione del genere – in cui,
per inciso, all’emergenza finanziaria si è sostituita l’emergenza sociale –
l’unica pista percorribile consisteva nel tradire il mandato elettorale. Poi,
certo, il tradimento poteva – teoricamente – avvenire in altre forme, e poteva
contemplare non Pd-Sc-Pdl ma Pd-Sel-M5S. Ma, anche se ciò si fosse verificato,
sempre di tradimento avremmo dovuto parlare.
****
Riassumendo
il tutto, possiamo dire che la democrazia ha smesso di funzionare a causa della
crisi economica. Roba da far tremare le vene ai polsi, ma è così. In più, di
fronte al governo che si è appena insediato, si pongono almeno quattro grossi
problemi: le difficoltà nel reperire i fondi per tamponare le emergenze e dar
vita ad una politica economica in grado di ridar fiato al Paese; i vincoli
posti dall’Europa per il raggiungimento del pareggio di bilancio e la riduzione
del debito pubblico; gli interessi indigeribili di Silvio Berlusconi, alle
prese con quella che forse sarà l’ultima sua battaglia con Ilda Boccassini; lo
stato confusionale in cui ancora si trova immerso il Partito democratico.
I primi
due ostacoli possono rendere più tortuoso il cammino di quest’esecutivo,
minando concretamente la possibilità che esso raggiunga gli obiettivi che si è
prefissato. I secondi due potrebbero tagliargli le gambe fin da subito,
chiudendo immediatamente la faccenda e riaprendo la situazione di caos in cui
siamo vissuti negli ultimi mesi. Ma in entrambi i casi bisogna tener presente
che il mancato conseguimento degli obiettivi di questo governo potrebbe
significare la sconfitta definitiva di ogni tentativo di rimettere in sesto la
situazione di questo disgraziato Paese.
Tommaso
Di Brango
Capaci, 2013
Credo
che si debbano mettere da parte almeno due retoriche, quando ci si accosta al
sacrificio compiuto da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. La prima è quella
che ne elogia le virtù eroiche, quasi che l’attività da essi svolta contro la
mafia sia stata il frutto di doti che altre persone, pur volendo, non
potrebbero possedere. La seconda è quella che evidenzia le carenze di uno Stato
che, quando non viene presentato addirittura come complice della mafia, viene
mostrato perlomeno come incapace di tutelare i suoi uomini migliori.
In
entrambi i casi, infatti, si tratta di retoriche che possiedono una base di
verità, ma nascono da un errore di fondo. Perché è vero che non tutti avrebbero
potuto, saputo e voluto fare quel che hanno fatto Falcone e Borsellino e che,
per questo, vanno considerati due eroi: ma non per questo si può pensare che la
lotta alla mafia sia da delegare all’eroismo degli individui. Ed allo stesso
modo è vero che lo Stato ha mostrato, in quella come in altre vicende, delle
opacità e delle arrendevolezze perlomeno sospette: ma non è possibile lasciar
passare l’idea che lo Stato e la mafia siano, grossomodo, equivalenti.
Che
l’eroismo non basti è dimostrato dal fatto che nel maggio del 2013 stiamo qui a
ricordare la strage di Capaci, mentre le organizzazioni mafiose – purtroppo –
continuano ad esistere. Ma se ci rassegniamo all’idea che Stato e mafia siano
la stessa cosa (e talvolta cediamo all’ulteriore retorica di chi ci parla di
organizzazioni mafiose dal volto, in fin dei conti, umano) dobbiamo concludere
che la morte di Falcone e Borsellino è stata perfettamente inutile, e che
dunque il nostro ricordo è semplicemente un modo per esorcizzare fantasmi che
continuano a perseguitare le nostre coscienze.
D’altro
canto fu lo stesso Giovanni Falcone a dirlo: la mafia non si può sconfiggerla
“pretendendo eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia
tutte le forze migliori delle istituzioni”.
Tommaso
Di Brango
In morte di Giulio Andreotti
Il
tratto che meglio di tutti caratterizza la figura di Giulio Andreotti è,
senz’altro, quello dell’enigmaticità. Non basta, infatti, evidenziare la
stridente contraddizione tra sincera fede religiosa e spregiudicato pragmatismo
politico in lui esistente per averne inquadrato il profilo. Questo sarebbe un
dato semplicemente riconducibile alla categoria del cosiddetto “gesuitismo”, e
cioè a quella sorta di fariseismo moderno (tutt’altro che raro o singolare) che
rinchiude la religiosità nell’osservanza della forma e spalanca le porte ad una
prassi sostanzialmente priva di autentici riferimenti morali. Ciò che invece
sorprende ed inquieta, in una personalità come quella di Giulio Andreotti, è
che ripercorrendo il suo iter politico e culturale fede in Dio e
spregiudicatezza vanno a braccetto ed anzi, paradossalmente, sembrano
integrarsi. “Bisogna amare così tanto Dio per capire quanto sia necessario il
male per avere il bene… Questo Dio lo sa, e lo so anch’io”. Molto probabilmente
è in questa frase, che ad un certo punto fuoriesce dalla bocca
dell’Andreotti-Toni Servillo de Il Divo di Paolo Sorrentino, che meglio si
riassume quel che qui si intende dire.
Come
questa integrazione avvenisse in lui è molto difficile dirlo, ed è qui che
risiede il carattere enigmatico del personaggio. Perché per chiunque è
perlomeno arduo tenere insieme la militanza nell’Azione Cattolica e nella
Federazione Universitaria Cattolici Italiani con le immagini del cadavere di
Mino Pecorelli, l’abitudine a frequentare con assiduità le riflessioni di
grandi teologi del passato e del presente con l’ipotesi del “bacio” scambiato
con Totò Riina ed i giudizi, violentissimi, che Aldo Moro formulò dal chiuso
della prigione nei suoi confronti. Certo è, però, che in qualche modo questa
integrazione, in lui, doveva avvenire in forme che esulano dalla semplice
ipocrisia – Giulio Andreotti non è stato un qualsiasi Pier Ferdinando Casini –
e che dovevano invece configurarsi come una specie di singolare “spiritualità
del potere”. E ad accentuare il dato della perenne indefinitezza dei suoi
contorni, inoltre, c’è il fatto che nulla o quasi nulla di ciò che si intuisce
di lui può essere effettivamente e realmente documentato.
Come
uomo politico, fu l’altro volto – quello oscuro ed ambiguo – della Democrazia
cristiana, contrapposto a quello – alto e autorevole, pur se non privo di
contraddizioni – di Aldo Moro. Ed a guardare il tutto a distanza di decenni,
anzi, pare possibile dire che nell’accoppiata Moro-Andreotti si realizzasse una
sorta di scissione di quella che fu la personalità di Alcide De Gasperi, in cui
il primo ha incarnato lo statista ed il secondo il politico. Il profilo
drammatico e pensoso di Aldo Moro, infatti, poteva essere considerato il cervello
pulsante di una Democrazia cristiana in grado di pensare i decenni ed
ipotizzare fin dagli anni Cinquanta il progressivo avvicinamento tra mondo
cattolico e mondo comunista, così come prima era stata capace di prendere
immediatamente parte al processo di unificazione europea. Viceversa, l’aura
inquietantemente misteriosa di Giulio Andreotti pareva riattualizzare la Dc
della “legge truffa” e della prossimità agli ambienti clerico-moderati di
destra, con tutto ciò che essi comportano in termini di predisposizione al
magheggio ed alla ricerca del consenso più facile e meno meditato.
Insomma,
è difficile immaginare che il ricordo di Giulio Andreotti riusciremo a
frequentarlo con serenità. Tuttavia sarà un turbamento, il nostro, dovuto non
alla mediocrità di una figura da second’ordine, ma all’indecifrabilità di
quello che non potrà non essere riconosciuto come un grande protagonista della
nostra storia recente.
Tommaso
Di Brango
Mai più
Ferite a morte: il nuovo governo è pronto a intervenire per fermare la violenza
sulle donne
I
giorni in cui il governo Letta ha cominciato a muovere i suoi primi passi, sono
stati segnati da violenze di genere, aggressioni e femminicidi, tre dei quali
si sono susseguiti nell’arco di ventiquattr’ore o poco più. Il bilancio degli
ultimi anni ci presenta una situazione drammatica, mentre aumenta
progressivamente il numero di donne che in questi primi mesi del 2013 hanno
trovato la morte per mano di un uomo; le cifre sono impressionanti, ma contano
fino a un certo punto: basterebbe anche una sola donna uccisa, o picchiata, o
violentata, per far scattare il campanello d’allarme.
Non ci
si può permettere di perdere altro tempo e altre vite e le associazioni sono
state le prime a mobilitarsi per mettere fine a questo scandalo: il progetto
teatrale Ferite a morte, scritto da Serena Dandini a sostegno della Convenzione
No More, ha lanciato una petizione su Change.org per chiedere subito al Governo
e al Parlamento la convocazione degli Stati generali sulla violenza contro le
donne. Il nuovo governo, sentitosi chiamato in causa, ha finalmente risposto in
modo reattivo: il vicepremier Angelino Alfano ha dichiarato che questa spinosa
questione sarà argomento del prossimo Consiglio dei Ministri, assicurando che
non esiste un limite di spesa o un
vincolo
di bilancio che possa fermare la difesa delle donne dalle aggressioni maschili
e dai soprusi di genere. Molto probabilmente la discussione partirà dalla
proposta del neo ministro delle Pari Opportunità Josefa Idem che, rendendosi
conto di quanto sia urgente un intervento per arginare l'emergenza, qualche
giorno fa ha annunciato la sua prima iniziativa: l’idea di una task force che
si occupi di questo tema in modo trasversale, coinvolgendo i Ministeri di
Interni, Giustizia, Lavoro e Salute.
La proposta
ha subito trovato ampi consensi: il ministro degli Esteri Emma Bonino si è
detta pronta a dare il proprio contributo e quello della Giustizia, Anna Maria
Cancellieri, ha dichiarato di volersi impegnare per combattere con grande
slancio contro questo genere di reati particolarmente odiosi; anche Cecile
Kyenge, Ministro dell’Integrazione, si è mostrata pronta alla collaborazione e
ha sostenuto la necessità di una legge specifica contro la violenza,
aggiungendo che bisogna arrivare in fretta alla ratifica della Convenzione di
Istanbul, riguardante la prevenzione della violenza contro le donne anche
all’interno delle mura domestiche, sottoscritta nel maggio 2011 ma non ancora
ratificata dal Parlamento italiano.
Il
Presidente della Camera, Laura Boldrini, ha rilanciato l’allarme sulla
disoccupazione femminile ritenendo che <<se una donna non lavora, in caso
di violenza, non ha autonomia. Per questo bisogna incentivare l’occupazione
femminile>>; si è poi scagliata contro il sessimo, l’oggettivazione e la
mercificazione del corpo della donna attuata dal mondo della pubblicità e ha
elogiato il progetto della Idem: <<Penso che sia una misura che dovrebbe
essere messa in atto il prima possibile - ha detto - perché la situazione in
Italia è grave. Troppe donne sono oggetto di violenza ad ogni livello, una
violenza che si estende dalle famiglie e che arriva anche al web>> . In
linea con la Idem anche il ministro della Salute Beatrice Lorenzin, a cui
sembra necessario agire anche a livello di sensibilizzazione, con una
mobilitazione generale che coinvolga l’intera società civile, poiché
<<ancor prima che giuridica, è un’emergenza culturale>>.
L’obiettivo quindi è agire con risolutezza e affrontare di petto la questione,
per sviluppare un piano antiviolenza che risponda alle linee internazionali e
concretizzi i suggerimenti contenuti nelle raccomandazioni Onu. Questo potrebbe
davvero essere il momento giusto: la percentuale di deputate e senatrici è la
più alta nella storia della Repubblica e sette sono le ministre nel governo
guidato da Enrico Letta, un esecutivo che sostiene di sentire fortemente il
tema del femminicidio e della violenza sulle donne. È bene che lo dimostri,
perché i centri di accoglienza e antiviolenza che si occupano quotidianamente e
concretamente dell’emergenza, continuano a far fatica a tenere operativi i loro
servizi soprattutto a causa dei governi precedenti, che pure ritenevano la
risoluzione del problema una priorità assoluta e promettevano interventi
immediati, ma che poi non hanno esitato a tagliare i fondi da destinarvi.
Adesso i tempi sono davvero maturi per fermare questo massacro, per convogliare
tutte le energie e le nuove risorse politiche verso quello che Serena Dandini
definisce un “minimo traguardo di civiltà”, perché la sconcertante indifferenza
verso questa e altri tipi di violenze, così diffuse e tollerate nel nostro
Paese, la dice lunga su quanto siamo lontani dalla realizzazione di una
democrazia che non sia soltanto un paravento, ma che si dimostri all’altezza di
tale nome.
Anna
Tanzi
LA PROPOSTA INOPPORTUNA
“IUS SOLI”, FAVOREVOLI E CONTRARI
È
ormai un mese che il nuovo Esecutivo si è insediato. Tra le altre novità,
bisogna ricordare che il Governo Letta ha, tra le sue fila, il primo ministro
di colore della storia del nostro paese. Sto parlando, ovviamente, del neo
ministro dell’Integrazione Cecile Kyenge.
Appena
preso il potere del suo dicastero, la Kyenge ha sùbito mostrato di che pasta è
fatta mettendo in chiaro che il suo obbiettivo primario è lo ius soli.
Lo ius
soli è quel principio che prevede la cittadinanza per tutti coloro che nascono
nei territori dello Stato, indipendentemente dalla cittadinanza posseduta dai
genitori. Ad oggi in Italia la legge vigente prevede,
invece,
lo ius sanguinis, che è il principio per cui ha diritto di cittadinanza solo
chi nasce da genitori italiani. La questione ha ovviamente creato molto
scalpore tra gli scranni di Montecitorio e Palazzo Madama. I partiti e i
movimenti presenti in Parlamento non condividono, come è ovvio, le stesse idee
sul tema. Il Movimento 5 Stelle, per bocca del suo “Mangiafuoco genovese”, si
dice favorevole allo ius soli solo se approvato da un referendum, Scelta Civica
appare scettica ad una reale attuazione della proposta, PDL e Lega sono,
chiaramente, fermi oppositori dello ius soli e in più occasioni esponenti di
spicco dei due partiti hanno ribadito tale opposizione definendo lo ius soli:
“non ipotizzabile” o “inopportuno” o, ancora, una “scelta demagogica”. PD e
Sel, dal canto loro, sono favorevoli all’attuazione della legge
sull’immigrazione.
La
Kyenge trova appoggio anche dal neo Presidente della Camera, ed ex- portavoce
dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite, Laura Boldrini, che aveva
accettato la candidatura con Sel proprio per lavorare sui temi di cittadinanza
ed immigrazione. Più realista, invece, il Presidente del Senato Grasso che
tenta di raffreddare i bollenti spiriti dei “buonisti” intimando prudenza e
temendo un’invasione di puerpere che verrebbero nel nostro paese solo per
partorire. Per quanto riguarda il Presidentissimo (re) Giorgio (II) Napolitano,
non sembra preoccuparsi troppo del rischio che lo Stivale diventi un’enorme
reparto maternità per donne provenienti da ogni dove. Il Grande Capo, infatti,
ha più volte ribadito che è necessario dare una risposta a tutti i bambini nati
in Italia da genitori stranieri. Perché di questo stiamo parlando: i figli
degli stranieri, pur essendo nati in Italia, non acquisiscono la cittadinanza
italiana, ma quella del paese d’origine dei loro genitori; anche se in quel
paese non ci sono mai stati ne conoscono la lingua della terra da cui
provengono i loro padri. Con la legge vigente i 590.000 bambini registrati come
stranieri all’anagrafe negli ultimi dieci anni potranno richiedere la
cittadinanza solo al compimento della maggiore età e solo se in possesso di
tutti i requisiti (non sempre così semplici da dimostrare). Se non lo faranno
torneranno nella categoria di “immigrati” e dovranno sottostare agli
inviolabili dogmi della legge Bossi-Fini.
Intanto
il ministro Kyenge continua la sua lotta non dimenticando le sue origini (“Sono
nera, non di colore” è una frase che farà epoca) e cercando di spiegare alle
masse urlanti, che la invitano a “tornare in Congo”, che la legge proposta non
sarà uno ius soli “puro” come già esiste, ad esempio, negli Stati Uniti, ma,
piuttosto, uno ius soli “temperato” basato sulla precedente proposta di legge
firmata da: Bersani, Speranza, Chaouki e dalla stessa Kyenge.
Tale
proposta prevedrebbe che a ottenere la cittadinanza italiana siano i bambini
nati in Italia, con almeno un genitore residente da cinque anni, e i minori che
arrivano nel nostro paese e che concludono almeno un ciclo scolastico
(elementari, medie, superiori).
Ora,
però, la questione diventa molto problematica a causa degli spiacevoli fatti di
cronaca dei giorni scorsi. Dopo la follia dell’africano Kabobo, era prevedibile
che chi di dovere si scagliasse contro la Kyenge. Integerrimi leghisti hanno
subito accostato il disgraziato caso alla questione ius soli: "I
clandestini che il ministro di colore vuole regolarizzare ammazzano a
picconate: Cecile Kyenge rischia di istigare alla violenza nel momento in cui
dice che la clandestinità non è reato, istiga a delinquere". Queste le
parole a caldo di quel brav’uomo di Matteo Salvini.
Il
ministro Kyenge ha prontamente risposto dicendo che: “Non bisogna fomentare
l'odio. E' troppo facile dire che esiste un'equivalenza tra immigrazione e
reati, ma non è vero. E' giusto punire i reati, indipendentemente dall'origine
di chi li commette”.
Sperando
che la coscienza comune non faccia di tutta l’erba un fascio e sperando che il
Parlamento si ricordi che circa un anno fa la popolazione italiana si era già
espressa con più di 100.000 firme a favore della legge di iniziativa popolare
per la riforma del diritto di cittadinanza e l’introduzione dello ius soli nel
nostro ordinamento, non posso che fare tanti auguri alla ministra Kyenge...
“Auguri
Cecile, ma non ci sperare troppo però!”
Gianluca
Mario
___________________________________________________
Numero precedente, vedi sotto:
Nota
Il Presidente della Repubblica è il capo dello
Stato italiano. La sua funzione è quella di rappresentare l’unità nazionale e
la continuità delle istituzioni repubblicane (per questa ragione il suo mandato
dura sette anni, mentre le legislature cinque). Viene eletto dal Parlamento in
seduta comune insieme ai rappresentanti delle regioni, ed il suo ruolo e le sue
funzioni vengono definiti dal Titolo II della Costituzione (artt. 83-91). La
sua residenza ufficiale è collocata a Roma, sul colle Quirinale. Dal 20 aprile
2013 Giorgio Napolitano è stato riconfermato alla Presidenza della Repubblica,
dopo aver svolto il medesimo incarico nei sette anni compresi tra il 2006 ed il
2013. È il primo caso nella storia repubblicana, che prima di lui contava dieci
diversi Presidenti.
I FUNERALI DI UNO
STATO
LO SCENARIO
POLITICO ITALIANO TRA RIELEZIONI E NUOVE PROSPETTIVE DI GOVERNO
Napolitano! “Meno male”, dicono
alcuni. “Ancora lui”, dico altri. Sta di fatto che Re Giorgio è tornato, pronto
a sedere sul trono per altri sette anni, età permettendo. E già perché il buon
vecchio Napolitano ha ormai ottantotto anni e, facendo due conti, dovrebbe
chiudere il suo secondo mandato a novantacinque. Speriamo che le preghiere
della CEI bastino.
Ma perché si è arrivati a questa
rielezione che vede un ultraottantenne, che magari già immaginava i suoi
pomeriggi trascorsi in un assolato parco pubblico a giocare a bocce, tenere in
mano le sorti di un Paese che sta colando a picco? Cosa mancava a tutti gli
altri nomi proposti? La Gabanelli e Gino Strada? Grandi nomi che però non
sapevano dove mettere le mani. Amato? Neanche a parlarne… Marini? Non piaceva a
Renzi… Prodi? Non piaceva a Berlusconi… la Cancellieri? Non piaceva a nessuno…
e Rodotà? Già… Stefano Rodotà. Certo, se rimaniamo sulla questione anagrafica
l’età si abbassa di poco, ma che cosa avrebbe significato Rodotà per l’Italia
della politica e per l’Italia del popolo? Probabilmente se avessimo avuto una
repubblica presidenziale la gente avrebbe eletto lui (anche se i genitori del
giovane turco Fassina non sanno chi sia) mandando in pensione Napolitano.
Sicuramente la sua preparazione, politica e giuridica, non avrebbe fatto
sentire la mancanza di Mister President. Purtroppo però le Maggioranze hanno
pensato che quello di Rodotà era un nome sì autorevole ma che non andava bene
perché lo votavano quelli del M5S. Che poi è un po’ come quel moccioso a cui
piace giocare a palla ma non ci gioca perché quei bambini che ci stanno già
giocando ( con la palla) gli stanno proprio antipatici.
Intanto il caro Partito D.
sembra andare sempre di più alla deriva come una nave che tutti si apprestano
ad abbandonare: prima il capitano (Bersani) e i suoi alti ufficiali (Bindi e
Letta) e poi tutti gli altri fino ai topi sellini che non curanti di ciò che la
democratica nave ha fatto per loro, portandoli sani e salvi nella baia di
Montecitorio, saltano giù dal ponte di coperta e si gettano in mare sperando si
essere ripescati da un peschereccio a 5 stelle. Nel mentre la nave, senza
timoniere, è attaccata dal feroce pirata fiorentino che se ne impossessa e,
seguendo una nuova rotta, la porta fino all’isola di Arcore dove insieme al
terribile corsaro Long John Silvio si spartirà gli ultimi tesori della
Sinistra… Imbarcazione. Guardando al futuro la situazione della nostra povera
Patria appare catastrofica: la rielezione di N. fa supporre che si cercherà di
mettere insieme un governo di larghe intese guidato da un uomo ( o da una
donna) che garantisca per tutti i partiti (Amato? Cancellieri?... chissà), un
governo che riesca a portare avanti l’operato montiano, e questo per l’Italia
significa ancora: sacrifici, recessione, disoccupazione, povertà, sucidi.
In un panorama politico che vede
il PD ridotto in frantumi, il Movimento grillino sempre più propenso a
distruggere anziché costruire, l’unico vincitore sembra essere Berlusconi che
continua di fatto ad essere il degno rappresentante di un ignorante masnada di
stolti che si definisce nazione civile e che è sempre pronta a trovare nella
classe politica il capro espiatorio fonte di ogni suo disagio economico e
sociale. Mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa!
Gianluca Mario
IL PREDIDENZIALISMO
DIFFICILE
Il settennato di Giorgio Napolitano è stato
attraversato da un singolare paradosso. Non è un mistero per nessuno, infatti,
che l’ex (e neo) Presidente della Repubblica non ha mai visto di buon occhio
un’eventuale trasformazione in senso presidenzialistico della nostra architettura
istituzionale. Ma, nello stesso tempo, è chiaro a tutti che non c’è stato capo
dello Stato, tra i dieci che lo hanno preceduto, politicamente attivo come lui.
Ora, sulla cosa si possono avere – e si hanno – i
giudizi più disparati. Si può pensare che il suo sia stato un legittimo
esercizio delle prerogative presidenziali, come pure si può ritenere che abbia
posto in essere un’azione di tipo para-monarchico (che qualcuno ha espresso
adoperando l’immagine giornalistica di “Re Giorgio”). Ma è difficile mettere in
discussione il fatto che Napolitano abbia agito come ha agito perché aveva di
fronte a sé un panorama politico debole, incapace di offrire autentiche
risposte al Paese. Il governo Prodi è durato quel che è durato, aveva la
maggioranza che aveva e si ritrovava la coesione interna che si ritrovava.
L’esecutivo guidato da Silvio Berlusconi, pur godendo della più ampia
maggioranza parlamentare che si sia mai vista nella storia repubblicana, si è
ritrovato in breve tempo – con la scissione di Fini – a boccheggiare di fronte
al Paese che sprofondava nella crisi economica. Ed infine c’è stato il governo
Monti, che a tutti gli effetti può essere considerato figlio dell’inadeguatezza
della politica – tutta – ad assumersi responsabilità di governo in un momento
delicatissimo e dell’iniziativa di Giorgio Napolitano. Dopodiché: il nulla. A
febbraio si è votato, ma tuttora siamo senza governo, e l’unico punto di
riferimento istituzionale è stato il Presidente della Repubblica.
In una situazione del genere, era impensabile che
Napolitano potesse agire come i suoi predecessori della Prima Repubblica
(eccezion fatta per un Giovanni Gronchi). Come insegnano gli studi di scienza
politica, infatti, l’interventismo del Presidente della Repubblica tende
fisiologicamente a crescere in una condizione di debolezza del sistema dei
partiti, e viceversa a decrescere dove questi ultimi sono in salute. E non è
possibile negare che i nostri partiti tutto sono meno che in salute.
****
D’altro canto sarebbe un errore credere che si
tratti di una congiuntura momentanea, legata agli ultimi anni. Se facciamo due
passi indietro nella storia, infatti, notiamo il nome di un Francesco Cossiga –
che tutto è stato meno che un Presidente “neutrale” – o di un Oscar Luigi
Scalfaro – che nominò il governo Ciampi senza ricorrere al rito delle
consultazioni – o, ancora, di un Carlo Azeglio Ciampi – che ha esercitato il
potere di rinvio su leggi importanti come la riforma del sistema
radiotelevisivo e la riforma della giustizia. Insomma: le criticità del nostro
sistema politico sono un dato strutturale, che ci ha introdotti in una
situazione di presidenzialismo “di fatto”.
Di fronte ad una situazione del genere, si è
levato da più parti il desiderio non solo di accrescere i poteri del Presidente
della Repubblica, ma anche – e di conseguenza – di affidare al popolo la sua
elezione. Sarebbe piaciuto molto a Giulio Andreotti – che si vide “scippare” il
Colle da Scalfaro solo perché a votare non era la società civile –, è stato per
anni il sogno segreto di Silvio Berlusconi – che a più riprese ha sottolineato
la necessità di riformare l’istituto presidenziale – ed è stato uno dei motivi
di forza della campagna messa in piedi in questi giorni dal Movimento 5 Stelle
a favore di Stefano Rodotà. Un fatto, quest’ultimo, che manifesta un altro
singolare paradosso, poiché ci mostra un candidato al Quirinale (Rodotà)
storicamente contrario al presidenzialismo che però accetta di essere
presentato per la corsa al Colle mediante il metodo delle cosiddette “quirinarie”
(cioè una forma, sia pur rozza ed embrionale, di elezione diretta del
Presidente). Ma anche un fatto che obbliga ad acquisire un dato politico: la
trasformazione in senso presidenziale delle nostre istituzioni non è più
un’opzione. È una necessità. Ma anche un rischio.
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È necessario non limitarsi ad una risposta
conservatrice – il “niet” storicamente opposto a sinistra – al problema della
revisione della figura del Presidente della Repubblica, perché il problema è
reale e disinteressarsene potrebbe significare lasciare campo netto alle
pseudo-soluzioni di Grillo e Berlusconi. Ma è anche un rischio muoversi in
direzione presidenzialista perché, inutile nascondercelo, viviamo in Italia, e
cioè in un Paese in cui il “popolo” è molto incline ad affidarsi a figure
messianiche o a scambiare per liberatori quelli che sono i suoi futuri
oppressori. È accaduto con Mussolini. È accaduto con Berlusconi. C’è il rischio
che accada anche con Grillo. E l’ultimo mese e mezzo di vita collettiva ha
mostrato che non siamo affatto fuori pericolo, e che anzi siamo immersi fino al
collo in quello che è il nostro costume tradizionale – basti pensare
all’elezione di Laura Boldrini: è una degnissima persona, ma quanti conoscevano
il suo nome appena un attimo prima che diventasse Presidente della Camera? Ed
allora: sulla base di cosa – se non di un facile entusiasmo – la sua elezione è
stata accompagnata dal giubilo generale?
In un quadro del genere, dunque, è del tutto
secondario discutere di Rodotà e Napolitano. Perché Rodotà è senz’altro persona
seria e competente, come serio e competente è Napolitano. Il punto, però, è che
si è entrati in una situazione in cui il presidenzialismo (e, dunque, anche una
riforma costituzionale) non è più un’opzione ma una necessità. Ma, nello stesso
tempo, il ridicolo suicidio del centro-sinistra dà al Paese solo due forze in
grado, in futuro, di realizzare un’opera di questo tipo: il centro-destra
berlusconiano ed il movimento grillino. Il che è come dire: gli unici in grado
di venire incontro a questa necessità sono i meno indicati ad offrire soluzioni
che non sfocino in nuove forme di autoritarismo. Tutte queste cose Napolitano
le sa, ed è probabilmente per questo che ha accettato di tornare al Quirinale.
E non dubito che le sappia anche Rodotà, e per questo non posso non chiedermi
come mai ha rivendicato il favore popolare per dare forza e legittimità alla
sua corsa al Colle.
Tommaso Di Brango
NAPOLITANO RESTA AL QUIRINALE:
QUANDO GATTOPARDI, SCIACALLI E PECORE
IMPEDISCONO IL CAMBIAMENTO
A quasi due mesi dalle elezioni politiche, siamo ancora in attesa di un governo che sia in grado di dare una risposta alle richieste e ai bisogni del Paese e che provi a restituire dignità a un popolo svilito, deluso, umiliato. Dopo mille peripezie, l’Odissea delle elezioni per la Presidenza della Repubblica ci ha fatto approdare alla rielezione di Napolitano, chiamato per la prima volta nella storia repubblicana a rimanere sul Colle per un secondo mandato. Dunque ci sono voluti due mesi perché vedessimo l’Italia essere ricondotta al punto di partenza da chi ha abusato di parole quali cambiamento, novità, progresso e rinnovamento al punto da svuotarle del loro significato, da ridurle a meri suoni.
Nel momento in cui è scattato il quorum, tutti (o quasi) erano lì ad applaudire, a intonare l’inno nazionale, a ringraziare il Presidente per la disponibilità, lo spirito di sacrificio, il senso dello Stato e sono piovute da ogni dove esternazioni di stima e gratitudine per l’uomo che, di nuovo, ha accettato di caricarsi la croce sulle spalle. Si legge su Le Monde: <<Nel campo di rovine che è diventato la politica italiana, Giorgio Napolitano è il solo a essere rimasto più o meno in piedi, affidabile, rassicurante, professionale>>. Sventurata la terra che ha bisogno di eroi, scrive Brecht: l’eroe in questione è la stessa persona che solo pochi giorni prima aveva parlato della sua rielezione come di una non-soluzione, ribadendo la necessità di guardare avanti e di avere il coraggio di compiere delle scelte, perché fare marcia indietro sarebbe stato sbagliato e <<ai limiti del ridicolo>>. Le forze presenti in Parlamento, invece, oltre a mancare di coraggio, non hanno nemmeno provato il minimo sentimento del ridicolo: ad elezione avvenuta, Berlusconi se la rideva, con la faccia beffarda di chi l’ha fatta franca un’altra volta, l’ennesima; Grillo gridava al golpe (ora golpettino), minacciando di scendere in piazza per poi fare marcia indietro, a riconferma dell’ inconcludenza che caratterizza il M5S; Bersani si scioglieva nel pianto liberatorio di chi sa di aver sbagliato ogni mossa, di aver perso tutte le battaglie in una guerra che non ha combattuto mai fino in fondo, inizialmente con l’illusione di avere già la vittoria in tasca e in un secondo momento perché troppo impegnato nel tentativo di ricomporre le fratture interne, rivelatesi poi insanabili, che hanno disintegrato il PD.
Tra tante ridicolaggini inconsapevoli, quello che Napolitano si accinge a nominare sarà, con ogni probabilità, un governo di scopo, basato su un programma minimo fatto di riforme come quello stilato dai dieci saggi: un nuovo governo delle banche, sulla falsariga di quello guidato da Monti – sostiene chi già grida all’inciucio senza aver fatto nulla di concreto per evitarlo.
<<Se vogliamo che tutto rimanga com’è – diceva Tancredi a don Fabrizio nel Gattopardo – bisogna che tutto cambi>> . Ai cittadini italiani, invece, è stato promesso che tutto sarebbe cambiato, che sarebbe nata una nuova politica, ma tutto sembra restare immobile, se non addirittura fare marcia indietro, come temeva proprio Napolitano. In attesa di uno scossone che ci risvegli da questo estenuante torpore politico, sarebbe bello se sul paralizzante finale gattopardiano <<dopo sarà diverso, ma peggiore>> a cui già ci prepariamo, avesse la meglio uno dei principi base del rugby, secondo cui –paradossalmente- bisogna passare la palla indietro se si vuole avanzare.
Anna Tanzi
UNO "STATO D'ECCEZIONE"
NAPOLITANO-BIS, O DELLA RESA DELLA
DEMOCRAZIA PARLAMENTARE
“Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione”
Carl Schmitt, Teologia politica
Dopo neanche due anni dalla fatidica discesa in
campo dei “tecnici” nel novembre 2011, e a pochi mesi dalle elezioni che
avrebbero dovuto segnare il ritorno della “politica”, la nostra democrazia
rappresentativa è stata messa nuovamente in stand-by. Con la rielezione
dell'ormai “Re” Giorgio Napolitano a capo dello Stato, un unicum nella
nostra storia repubblicana, si è consumato un ulteriore strappo verso un cosiddetto
“presidenzialismo di fatto”. Imponendo ipso facto programmi e sostegno
ad un ulteriore “governo di saggi” (stavolta metà tecnici, metà politici), il
neo-ex Presidente si pone chiaramente come un moderno Leviatano che blinda le
istituzioni sotto la propria egida. Le giustificazioni a questo stupro della
democrazia sono le solite, nel sempre più smaccato e patetico politichese,
“siamo in un momento difficile, eccezionale, in cui è indispensabile una presa
di responsabilità collettiva (vedi anche: larghe intese, inciucio), e in cui
ognuno deve saper onorare i propri doveri (vedi anche: “riforme” e austerity)
per la salvezza della Nazione (!!!)”. La straordinarietà della situazione
dunque, impone “decisioni forti”, l'Europa e i mercati ce lo chiedono, bello...
(da notare il subitaneo plauso delle gerarchie internazionali alla rielezione
di Re Giorgio). La medicina amara del “pensiero unico” neoliberista è l'unica
soluzione per uscire dall'empasse in cui si trova il Paese. Eppure, non
sembrava dovesse essere questo l'unico orizzonte politico concepibile, dopo un
voto popolare che, nel bene e nel male, aveva attestato un sentimento di
rottura e di discontinuità rispetto alle politiche dei “tecnici”. In realtà,
comunque la si giri, quello che risulta ormai evidente, è lo strappo definitivo
tra istituzioni e società, venuto fuori con l'eclissarsi dei partiti politici
tradizionali, incapaci da tempo di porsi come mediatori e rappresentanti degli
interessi dei cittadini. In questo scenario da “finale di partito”, è inutile
affidarsi a sedicenti salvatori della patria o invocare tardivi coprifuoco e
“poteri che trattengono”. La vera eccezione deve essere la partecipazione in
massa alle decisioni democratiche attraverso modi e pratiche nuove che già oggi
si sperimentano (No Tav, Beni comuni, Cambiare si può...). Una spinta
propulsiva “dal basso”, che inneschi forme di auto-organizzazione della società
e strutture sempre più “leggere” di rappresentanza. Utopia?
Fantapolitica? Il momento è eccezionale, esige soluzioni “eccezionali”.
Mario Ciaburri
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