Politica



Nota
L’evento politico più rilevante del mese scorso, in Italia, è senza dubbio la nascita del governo Letta. Frutto dell’accordo tra Partito democratico e Popolo della Libertà, esso vede la luce all’indomani di una tornata elettorale che non ha decretato dei veri e propri vincitori, ed ha lasciato il Paese senza una maggioranza in grado di esprimere una squadra di governo. Dopo quasi due mesi di tentativi di accordo tra il Pd ed il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo (con Pierluigi Bersani che ripetutamente ha manifestato la volontà di dar vita ad un’intesa ed i pentastellati che hanno sistematicamente rifiutato) e la burrascosa rielezione di Giorgio Napolitano alla Presidenza della Repubblica, infatti, le due maggiori forze politiche del Paese hanno intrapreso un difficile cammino comune. Non potevamo, però, esimerci dal parlare della morte di Giulio Andreotti. Si tratta, certo, di un fatto privo dello stesso rilievo politico, ma indubbiamente meritevole d’attenzione per via delle sue implicazioni storiche e culturali. Andreotti è stato, infatti, una delle figure cardine della cosiddetta Prima Repubblica, ed al suo nome si legano gran parte di quei misteri d’Italia rimasti a tutt’oggi irrisolti. Abbiamo, inoltre, voluto ricordare con una nota il fatto che nel mese di maggio è ricorso il ventunesimo anniversario della strage di Capaci, in cui trovarono la morte il magistrato Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta. Non potevamo farne a meno.








Governare in uno “stato d’eccezione”
Il “governo dei tecnici” di Mario Monti aveva, oltre al fatto di non essere composto da politici, tre caratteristiche specifiche. La prima: la maggioranza parlamentare che lo teneva in piedi non era frutto del voto popolare. La seconda: quella maggioranza era composta dal Partito democratico, dal Centro moderato e dal Popolo della Libertà. La terza: il tutto era chiaramente frutto della volontà del Presidente della Repubblica. Tutto questo era avvenuto in maniera perfettamente legittima – ci furono regolari consultazioni –, ma di certo non rappresentava una situazione ideale dal punto di vista delle politiche democratiche, e poteva essere considerato conseguenza di uno “stato di necessità” o “stato d’eccezione”.
Il “governissimo” Letta-Alfano, a differenza del governo Monti, è costituito integralmente da politici – sia pure di “seconda fila” –, ma presenta tre caratteristiche specifiche. La prima: la maggioranza parlamentare che lo tiene in piedi non è frutto del voto popolare. La seconda: quella maggioranza è composta dal Partito democratico, dal Centro moderato e dal Popolo della Libertà. La terza: il tutto è chiaramente frutto della volontà del Presidente della Repubblica. Tutto questo è avvenuto in maniera perfettamente legittima – si tratta di un “governo del Presidente”, dotato di precedenti nella storia repubblicana –, ma di certo non rappresenta una situazione ideale dal punto di vista delle politiche democratiche, e può essere considerato conseguenza di uno “stato di necessità” o “stato d’eccezione”.
Tutto questo dimostra una cosa molto semplice: che lo “stato di necessità” o “stato d’eccezione” non è stato superato, ed anzi ci siamo ancora immersi fino al collo. E d’altro canto anche chi ritiene – come Beppe Grillo, Nichi Vendola ecc. – che questi governi non siano nati per risolvere i problemi che li hanno generati ma solo per tutelare interessi di vertice ed affossare la democrazia non fa altro che confermare quanto qui si sta dicendo, e cioè che essi nascono a causa di uno “stato di necessità” o “stato d’eccezione”.
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Ora, non è difficile osservare che, se in un anno e mezzo sono ben due i governi ad insediarsi senza essere espressione del voto popolare, è, per dirla in modo improprio ma chiaro, la regola della democrazia quella a cui la nostra situazione fa eccezione. Ma una volta detto questo dobbiamo chiederci: di che natura è questa eccezione? Ovvero: è un golpe, il frutto di un complotto ordito da una schiera di tecnocrati, oppure una crisi economica che si sta trasformando in crisi politica? Io credo, purtroppo, che la risposta più esatta sia la seconda. E dico “purtroppo” perché se fosse in atto un golpe o un complotto saremmo in presenza di un ordine – certo del tutto indesiderabile: ma comunque un ordine, una forma di controllo della situazione –, mentre l’impressione che ho è che il nostro presente proceda in maniera del tutto disordinata.
Perché il governo Monti nacque, fondamentalmente, per una questione di tempi. La bolla speculativa dell’estate 2011 aveva fatto lievitare il nostro (ormai famigerato) spread, e saldare i Btp in scadenza entro la fine del 2012 richiedeva interventi immediati, altrimenti il rischio era il default. Quindi non si poteva attendere l’esito di una campagna elettorale, e bisognava agire tempestivamente. E non si può dire che l’azione del governo Monti non abbia soddisfatto questi requisiti. Al contrario lo spread è crollato (anche grazie a Mario Draghi), non c’è stato alcun default e le nostre finanze pubbliche sono tra le più virtuose d’Europa. Il punto è che, per ottenere questo, il “governo dei tecnici” ha aggravato la situazione recessiva di un Paese che già si trovava in sofferenza nel momento in cui esso si è insediato. Il che, detto in soldoni, significa: ha peggiorato le condizioni di vita degli italiani. E questi ultimi, quando s’è trattato di andare a votare, nel febbraio scorso, non hanno scelto nessuno perché, in concreto, di nessuno si fidavano davvero: l’astensionismo è cresciuto del 5% ed i voti espressi non hanno dato a nessuna delle tre grosse forze politiche in campo il diritto di formare un governo. Non c’è da sorprendersi, vista la questione sociale venutasi a creare.
Quindi, che fare per dare un governo al Paese? In una situazione del genere – in cui, per inciso, all’emergenza finanziaria si è sostituita l’emergenza sociale – l’unica pista percorribile consisteva nel tradire il mandato elettorale. Poi, certo, il tradimento poteva – teoricamente – avvenire in altre forme, e poteva contemplare non Pd-Sc-Pdl ma Pd-Sel-M5S. Ma, anche se ciò si fosse verificato, sempre di tradimento avremmo dovuto parlare.
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Riassumendo il tutto, possiamo dire che la democrazia ha smesso di funzionare a causa della crisi economica. Roba da far tremare le vene ai polsi, ma è così. In più, di fronte al governo che si è appena insediato, si pongono almeno quattro grossi problemi: le difficoltà nel reperire i fondi per tamponare le emergenze e dar vita ad una politica economica in grado di ridar fiato al Paese; i vincoli posti dall’Europa per il raggiungimento del pareggio di bilancio e la riduzione del debito pubblico; gli interessi indigeribili di Silvio Berlusconi, alle prese con quella che forse sarà l’ultima sua battaglia con Ilda Boccassini; lo stato confusionale in cui ancora si trova immerso il Partito democratico.
I primi due ostacoli possono rendere più tortuoso il cammino di quest’esecutivo, minando concretamente la possibilità che esso raggiunga gli obiettivi che si è prefissato. I secondi due potrebbero tagliargli le gambe fin da subito, chiudendo immediatamente la faccenda e riaprendo la situazione di caos in cui siamo vissuti negli ultimi mesi. Ma in entrambi i casi bisogna tener presente che il mancato conseguimento degli obiettivi di questo governo potrebbe significare la sconfitta definitiva di ogni tentativo di rimettere in sesto la situazione di questo disgraziato Paese.
Tommaso Di Brango





Capaci, 2013
Credo che si debbano mettere da parte almeno due retoriche, quando ci si accosta al sacrificio compiuto da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. La prima è quella che ne elogia le virtù eroiche, quasi che l’attività da essi svolta contro la mafia sia stata il frutto di doti che altre persone, pur volendo, non potrebbero possedere. La seconda è quella che evidenzia le carenze di uno Stato che, quando non viene presentato addirittura come complice della mafia, viene mostrato perlomeno come incapace di tutelare i suoi uomini migliori.
In entrambi i casi, infatti, si tratta di retoriche che possiedono una base di verità, ma nascono da un errore di fondo. Perché è vero che non tutti avrebbero potuto, saputo e voluto fare quel che hanno fatto Falcone e Borsellino e che, per questo, vanno considerati due eroi: ma non per questo si può pensare che la lotta alla mafia sia da delegare all’eroismo degli individui. Ed allo stesso modo è vero che lo Stato ha mostrato, in quella come in altre vicende, delle opacità e delle arrendevolezze perlomeno sospette: ma non è possibile lasciar passare l’idea che lo Stato e la mafia siano, grossomodo, equivalenti.
Che l’eroismo non basti è dimostrato dal fatto che nel maggio del 2013 stiamo qui a ricordare la strage di Capaci, mentre le organizzazioni mafiose – purtroppo – continuano ad esistere. Ma se ci rassegniamo all’idea che Stato e mafia siano la stessa cosa (e talvolta cediamo all’ulteriore retorica di chi ci parla di organizzazioni mafiose dal volto, in fin dei conti, umano) dobbiamo concludere che la morte di Falcone e Borsellino è stata perfettamente inutile, e che dunque il nostro ricordo è semplicemente un modo per esorcizzare fantasmi che continuano a perseguitare le nostre coscienze.
D’altro canto fu lo stesso Giovanni Falcone a dirlo: la mafia non si può sconfiggerla “pretendendo eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni”.
Tommaso Di Brango 





In morte di Giulio Andreotti
Il tratto che meglio di tutti caratterizza la figura di Giulio Andreotti è, senz’altro, quello dell’enigmaticità. Non basta, infatti, evidenziare la stridente contraddizione tra sincera fede religiosa e spregiudicato pragmatismo politico in lui esistente per averne inquadrato il profilo. Questo sarebbe un dato semplicemente riconducibile alla categoria del cosiddetto “gesuitismo”, e cioè a quella sorta di fariseismo moderno (tutt’altro che raro o singolare) che rinchiude la religiosità nell’osservanza della forma e spalanca le porte ad una prassi sostanzialmente priva di autentici riferimenti morali. Ciò che invece sorprende ed inquieta, in una personalità come quella di Giulio Andreotti, è che ripercorrendo il suo iter politico e culturale fede in Dio e spregiudicatezza vanno a braccetto ed anzi, paradossalmente, sembrano integrarsi. “Bisogna amare così tanto Dio per capire quanto sia necessario il male per avere il bene… Questo Dio lo sa, e lo so anch’io”. Molto probabilmente è in questa frase, che ad un certo punto fuoriesce dalla bocca dell’Andreotti-Toni Servillo de Il Divo di Paolo Sorrentino, che meglio si riassume quel che qui si intende dire.
Come questa integrazione avvenisse in lui è molto difficile dirlo, ed è qui che risiede il carattere enigmatico del personaggio. Perché per chiunque è perlomeno arduo tenere insieme la militanza nell’Azione Cattolica e nella Federazione Universitaria Cattolici Italiani con le immagini del cadavere di Mino Pecorelli, l’abitudine a frequentare con assiduità le riflessioni di grandi teologi del passato e del presente con l’ipotesi del “bacio” scambiato con Totò Riina ed i giudizi, violentissimi, che Aldo Moro formulò dal chiuso della prigione nei suoi confronti. Certo è, però, che in qualche modo questa integrazione, in lui, doveva avvenire in forme che esulano dalla semplice ipocrisia – Giulio Andreotti non è stato un qualsiasi Pier Ferdinando Casini – e che dovevano invece configurarsi come una specie di singolare “spiritualità del potere”. E ad accentuare il dato della perenne indefinitezza dei suoi contorni, inoltre, c’è il fatto che nulla o quasi nulla di ciò che si intuisce di lui può essere effettivamente e realmente documentato.
Come uomo politico, fu l’altro volto – quello oscuro ed ambiguo – della Democrazia cristiana, contrapposto a quello – alto e autorevole, pur se non privo di contraddizioni – di Aldo Moro. Ed a guardare il tutto a distanza di decenni, anzi, pare possibile dire che nell’accoppiata Moro-Andreotti si realizzasse una sorta di scissione di quella che fu la personalità di Alcide De Gasperi, in cui il primo ha incarnato lo statista ed il secondo il politico. Il profilo drammatico e pensoso di Aldo Moro, infatti, poteva essere considerato il cervello pulsante di una Democrazia cristiana in grado di pensare i decenni ed ipotizzare fin dagli anni Cinquanta il progressivo avvicinamento tra mondo cattolico e mondo comunista, così come prima era stata capace di prendere immediatamente parte al processo di unificazione europea. Viceversa, l’aura inquietantemente misteriosa di Giulio Andreotti pareva riattualizzare la Dc della “legge truffa” e della prossimità agli ambienti clerico-moderati di destra, con tutto ciò che essi comportano in termini di predisposizione al magheggio ed alla ricerca del consenso più facile e meno meditato.
Insomma, è difficile immaginare che il ricordo di Giulio Andreotti riusciremo a frequentarlo con serenità. Tuttavia sarà un turbamento, il nostro, dovuto non alla mediocrità di una figura da second’ordine, ma all’indecifrabilità di quello che non potrà non essere riconosciuto come un grande protagonista della nostra storia recente.
Tommaso Di Brango






Mai più Ferite a morte: il nuovo governo è pronto a intervenire per fermare la violenza sulle donne
I giorni in cui il governo Letta ha cominciato a muovere i suoi primi passi, sono stati segnati da violenze di genere, aggressioni e femminicidi, tre dei quali si sono susseguiti nell’arco di ventiquattr’ore o poco più. Il bilancio degli ultimi anni ci presenta una situazione drammatica, mentre aumenta progressivamente il numero di donne che in questi primi mesi del 2013 hanno trovato la morte per mano di un uomo; le cifre sono impressionanti, ma contano fino a un certo punto: basterebbe anche una sola donna uccisa, o picchiata, o violentata, per far scattare il campanello d’allarme.
Non ci si può permettere di perdere altro tempo e altre vite e le associazioni sono state le prime a mobilitarsi per mettere fine a questo scandalo: il progetto teatrale Ferite a morte, scritto da Serena Dandini a sostegno della Convenzione No More, ha lanciato una petizione su Change.org per chiedere subito al Governo e al Parlamento la convocazione degli Stati generali sulla violenza contro le donne. Il nuovo governo, sentitosi chiamato in causa, ha finalmente risposto in modo reattivo: il vicepremier Angelino Alfano ha dichiarato che questa spinosa questione sarà argomento del prossimo Consiglio dei Ministri, assicurando che non esiste un limite di spesa o un
vincolo di bilancio che possa fermare la difesa delle donne dalle aggressioni maschili e dai soprusi di genere. Molto probabilmente la discussione partirà dalla proposta del neo ministro delle Pari Opportunità Josefa Idem che, rendendosi conto di quanto sia urgente un intervento per arginare l'emergenza, qualche giorno fa ha annunciato la sua prima iniziativa: l’idea di una task force che si occupi di questo tema in modo trasversale, coinvolgendo i Ministeri di Interni, Giustizia, Lavoro e Salute.
La proposta ha subito trovato ampi consensi: il ministro degli Esteri Emma Bonino si è detta pronta a dare il proprio contributo e quello della Giustizia, Anna Maria Cancellieri, ha dichiarato di volersi impegnare per combattere con grande slancio contro questo genere di reati particolarmente odiosi; anche Cecile Kyenge, Ministro dell’Integrazione, si è mostrata pronta alla collaborazione e ha sostenuto la necessità di una legge specifica contro la violenza, aggiungendo che bisogna arrivare in fretta alla ratifica della Convenzione di Istanbul, riguardante la prevenzione della violenza contro le donne anche all’interno delle mura domestiche, sottoscritta nel maggio 2011 ma non ancora ratificata dal Parlamento italiano.
Il Presidente della Camera, Laura Boldrini, ha rilanciato l’allarme sulla disoccupazione femminile ritenendo che <<se una donna non lavora, in caso di violenza, non ha autonomia. Per questo bisogna incentivare l’occupazione femminile>>; si è poi scagliata contro il sessimo, l’oggettivazione e la mercificazione del corpo della donna attuata dal mondo della pubblicità e ha elogiato il progetto della Idem: <<Penso che sia una misura che dovrebbe essere messa in atto il prima possibile - ha detto - perché la situazione in Italia è grave. Troppe donne sono oggetto di violenza ad ogni livello, una violenza che si estende dalle famiglie e che arriva anche al web>> . In linea con la Idem anche il ministro della Salute Beatrice Lorenzin, a cui sembra necessario agire anche a livello di sensibilizzazione, con una mobilitazione generale che coinvolga l’intera società civile, poiché <<ancor prima che giuridica, è un’emergenza culturale>>. L’obiettivo quindi è agire con risolutezza e affrontare di petto la questione, per sviluppare un piano antiviolenza che risponda alle linee internazionali e concretizzi i suggerimenti contenuti nelle raccomandazioni Onu. Questo potrebbe davvero essere il momento giusto: la percentuale di deputate e senatrici è la più alta nella storia della Repubblica e sette sono le ministre nel governo guidato da Enrico Letta, un esecutivo che sostiene di sentire fortemente il tema del femminicidio e della violenza sulle donne. È bene che lo dimostri, perché i centri di accoglienza e antiviolenza che si occupano quotidianamente e concretamente dell’emergenza, continuano a far fatica a tenere operativi i loro servizi soprattutto a causa dei governi precedenti, che pure ritenevano la risoluzione del problema una priorità assoluta e promettevano interventi immediati, ma che poi non hanno esitato a tagliare i fondi da destinarvi. Adesso i tempi sono davvero maturi per fermare questo massacro, per convogliare tutte le energie e le nuove risorse politiche verso quello che Serena Dandini definisce un “minimo traguardo di civiltà”, perché la sconcertante indifferenza verso questa e altri tipi di violenze, così diffuse e tollerate nel nostro Paese, la dice lunga su quanto siamo lontani dalla realizzazione di una democrazia che non sia soltanto un paravento, ma che si dimostri all’altezza di tale nome.
Anna Tanzi







LA PROPOSTA INOPPORTUNA
“IUS SOLI”, FAVOREVOLI E CONTRARI
È ormai un mese che il nuovo Esecutivo si è insediato. Tra le altre novità, bisogna ricordare che il Governo Letta ha, tra le sue fila, il primo ministro di colore della storia del nostro paese. Sto parlando, ovviamente, del neo ministro dell’Integrazione Cecile Kyenge.
Appena preso il potere del suo dicastero, la Kyenge ha sùbito mostrato di che pasta è fatta mettendo in chiaro che il suo obbiettivo primario è lo ius soli.
Lo ius soli è quel principio che prevede la cittadinanza per tutti coloro che nascono nei territori dello Stato, indipendentemente dalla cittadinanza posseduta dai genitori. Ad oggi in Italia la legge vigente prevede,
invece, lo ius sanguinis, che è il principio per cui ha diritto di cittadinanza solo chi nasce da genitori italiani. La questione ha ovviamente creato molto scalpore tra gli scranni di Montecitorio e Palazzo Madama. I partiti e i movimenti presenti in Parlamento non condividono, come è ovvio, le stesse idee sul tema. Il Movimento 5 Stelle, per bocca del suo “Mangiafuoco genovese”, si dice favorevole allo ius soli solo se approvato da un referendum, Scelta Civica appare scettica ad una reale attuazione della proposta, PDL e Lega sono, chiaramente, fermi oppositori dello ius soli e in più occasioni esponenti di spicco dei due partiti hanno ribadito tale opposizione definendo lo ius soli: “non ipotizzabile” o “inopportuno” o, ancora, una “scelta demagogica”. PD e Sel, dal canto loro, sono favorevoli all’attuazione della legge sull’immigrazione.
La Kyenge trova appoggio anche dal neo Presidente della Camera, ed ex- portavoce dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite, Laura Boldrini, che aveva accettato la candidatura con Sel proprio per lavorare sui temi di cittadinanza ed immigrazione. Più realista, invece, il Presidente del Senato Grasso che tenta di raffreddare i bollenti spiriti dei “buonisti” intimando prudenza e temendo un’invasione di puerpere che verrebbero nel nostro paese solo per partorire. Per quanto riguarda il Presidentissimo (re) Giorgio (II) Napolitano, non sembra preoccuparsi troppo del rischio che lo Stivale diventi un’enorme reparto maternità per donne provenienti da ogni dove. Il Grande Capo, infatti, ha più volte ribadito che è necessario dare una risposta a tutti i bambini nati in Italia da genitori stranieri. Perché di questo stiamo parlando: i figli degli stranieri, pur essendo nati in Italia, non acquisiscono la cittadinanza italiana, ma quella del paese d’origine dei loro genitori; anche se in quel paese non ci sono mai stati ne conoscono la lingua della terra da cui provengono i loro padri. Con la legge vigente i 590.000 bambini registrati come stranieri all’anagrafe negli ultimi dieci anni potranno richiedere la cittadinanza solo al compimento della maggiore età e solo se in possesso di tutti i requisiti (non sempre così semplici da dimostrare). Se non lo faranno torneranno nella categoria di “immigrati” e dovranno sottostare agli inviolabili dogmi della legge Bossi-Fini.
Intanto il ministro Kyenge continua la sua lotta non dimenticando le sue origini (“Sono nera, non di colore” è una frase che farà epoca) e cercando di spiegare alle masse urlanti, che la invitano a “tornare in Congo”, che la legge proposta non sarà uno ius soli “puro” come già esiste, ad esempio, negli Stati Uniti, ma, piuttosto, uno ius soli “temperato” basato sulla precedente proposta di legge firmata da: Bersani, Speranza, Chaouki e dalla stessa Kyenge.
Tale proposta prevedrebbe che a ottenere la cittadinanza italiana siano i bambini nati in Italia, con almeno un genitore residente da cinque anni, e i minori che arrivano nel nostro paese e che concludono almeno un ciclo scolastico (elementari, medie, superiori).
Ora, però, la questione diventa molto problematica a causa degli spiacevoli fatti di cronaca dei giorni scorsi. Dopo la follia dell’africano Kabobo, era prevedibile che chi di dovere si scagliasse contro la Kyenge. Integerrimi leghisti hanno subito accostato il disgraziato caso alla questione ius soli: "I clandestini che il ministro di colore vuole regolarizzare ammazzano a picconate: Cecile Kyenge rischia di istigare alla violenza nel momento in cui dice che la clandestinità non è reato, istiga a delinquere". Queste le parole a caldo di quel brav’uomo di Matteo Salvini.
Il ministro Kyenge ha prontamente risposto dicendo che: “Non bisogna fomentare l'odio. E' troppo facile dire che esiste un'equivalenza tra immigrazione e reati, ma non è vero. E' giusto punire i reati, indipendentemente dall'origine di chi li commette”.
Sperando che la coscienza comune non faccia di tutta l’erba un fascio e sperando che il Parlamento si ricordi che circa un anno fa la popolazione italiana si era già espressa con più di 100.000 firme a favore della legge di iniziativa popolare per la riforma del diritto di cittadinanza e l’introduzione dello ius soli nel nostro ordinamento, non posso che fare tanti auguri alla ministra Kyenge...
“Auguri Cecile, ma non ci sperare troppo però!”
Gianluca Mario





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Numero precedente, vedi sotto:






Nota


Il Presidente della Repubblica è il capo dello Stato italiano. La sua funzione è quella di rappresentare l’unità nazionale e la continuità delle istituzioni repubblicane (per questa ragione il suo mandato dura sette anni, mentre le legislature cinque). Viene eletto dal Parlamento in seduta comune insieme ai rappresentanti delle regioni, ed il suo ruolo e le sue funzioni vengono definiti dal Titolo II della Costituzione (artt. 83-91). La sua residenza ufficiale è collocata a Roma, sul colle Quirinale. Dal 20 aprile 2013 Giorgio Napolitano è stato riconfermato alla Presidenza della Repubblica, dopo aver svolto il medesimo incarico nei sette anni compresi tra il 2006 ed il 2013. È il primo caso nella storia repubblicana, che prima di lui contava dieci diversi Presidenti.



 
I FUNERALI DI UNO STATO
LO SCENARIO POLITICO ITALIANO TRA RIELEZIONI E NUOVE PROSPETTIVE DI GOVERNO

Napolitano! “Meno male”, dicono alcuni. “Ancora lui”, dico altri. Sta di fatto che Re Giorgio è tornato, pronto a sedere sul trono per altri sette anni, età permettendo. E già perché il buon vecchio Napolitano ha ormai ottantotto anni e, facendo due conti, dovrebbe chiudere il suo secondo mandato a novantacinque. Speriamo che le preghiere della CEI bastino.
Ma perché si è arrivati a questa rielezione che vede un ultraottantenne, che magari già immaginava i suoi pomeriggi trascorsi in un assolato parco pubblico a giocare a bocce, tenere in mano le sorti di un Paese che sta colando a picco? Cosa mancava a tutti gli altri nomi proposti? La Gabanelli e Gino Strada? Grandi nomi che però non sapevano dove mettere le mani. Amato? Neanche a parlarne… Marini? Non piaceva a Renzi… Prodi? Non piaceva a Berlusconi… la Cancellieri? Non piaceva a nessuno… e Rodotà? Già… Stefano Rodotà. Certo, se rimaniamo sulla questione anagrafica l’età si abbassa di poco, ma che cosa avrebbe significato Rodotà per l’Italia della politica e per l’Italia del popolo? Probabilmente se avessimo avuto una repubblica presidenziale la gente avrebbe eletto lui (anche se i genitori del giovane turco Fassina non sanno chi sia) mandando in pensione Napolitano. Sicuramente la sua preparazione, politica e giuridica, non avrebbe fatto sentire la mancanza di Mister President. Purtroppo però le Maggioranze hanno pensato che quello di Rodotà era un nome sì autorevole ma che non andava bene perché lo votavano quelli del M5S. Che poi è un po’ come quel moccioso a cui piace giocare a palla ma non ci gioca perché quei bambini che ci stanno già giocando ( con la palla) gli stanno proprio antipatici.
Intanto il caro Partito D. sembra andare sempre di più alla deriva come una nave che tutti si apprestano ad abbandonare: prima il capitano (Bersani) e i suoi alti ufficiali (Bindi e Letta) e poi tutti gli altri fino ai topi sellini che non curanti di ciò che la democratica nave ha fatto per loro, portandoli sani e salvi nella baia di Montecitorio, saltano giù dal ponte di coperta e si gettano in mare sperando si essere ripescati da un peschereccio a 5 stelle. Nel mentre la nave, senza timoniere, è attaccata dal feroce pirata fiorentino che se ne impossessa e, seguendo una nuova rotta, la porta fino all’isola di Arcore dove insieme al terribile corsaro Long John Silvio si spartirà gli ultimi tesori della Sinistra… Imbarcazione. Guardando al futuro la situazione della nostra povera Patria appare catastrofica: la rielezione di N. fa supporre che si cercherà di mettere insieme un governo di larghe intese guidato da un uomo ( o da una donna) che garantisca per tutti i partiti (Amato? Cancellieri?... chissà), un governo che riesca a portare avanti l’operato montiano, e questo per l’Italia significa ancora: sacrifici, recessione, disoccupazione, povertà, sucidi.
In un panorama politico che vede il PD ridotto in frantumi, il Movimento grillino sempre più propenso a distruggere anziché costruire, l’unico vincitore sembra essere Berlusconi che continua di fatto ad essere il degno rappresentante di un ignorante masnada di stolti che si definisce nazione civile e che è sempre pronta a trovare nella classe politica il capro espiatorio fonte di ogni suo disagio economico e sociale. Mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa! 

Gianluca Mario


 IL PREDIDENZIALISMO DIFFICILE

Il settennato di Giorgio Napolitano è stato attraversato da un singolare paradosso. Non è un mistero per nessuno, infatti, che l’ex (e neo) Presidente della Repubblica non ha mai visto di buon occhio un’eventuale trasformazione in senso presidenzialistico della nostra architettura istituzionale. Ma, nello stesso tempo, è chiaro a tutti che non c’è stato capo dello Stato, tra i dieci che lo hanno preceduto, politicamente attivo come lui.
Ora, sulla cosa si possono avere – e si hanno – i giudizi più disparati. Si può pensare che il suo sia stato un legittimo esercizio delle prerogative presidenziali, come pure si può ritenere che abbia posto in essere un’azione di tipo para-monarchico (che qualcuno ha espresso adoperando l’immagine giornalistica di “Re Giorgio”). Ma è difficile mettere in discussione il fatto che Napolitano abbia agito come ha agito perché aveva di fronte a sé un panorama politico debole, incapace di offrire autentiche risposte al Paese. Il governo Prodi è durato quel che è durato, aveva la maggioranza che aveva e si ritrovava la coesione interna che si ritrovava. L’esecutivo guidato da Silvio Berlusconi, pur godendo della più ampia maggioranza parlamentare che si sia mai vista nella storia repubblicana, si è ritrovato in breve tempo – con la scissione di Fini – a boccheggiare di fronte al Paese che sprofondava nella crisi economica. Ed infine c’è stato il governo Monti, che a tutti gli effetti può essere considerato figlio dell’inadeguatezza della politica – tutta – ad assumersi responsabilità di governo in un momento delicatissimo e dell’iniziativa di Giorgio Napolitano. Dopodiché: il nulla. A febbraio si è votato, ma tuttora siamo senza governo, e l’unico punto di riferimento istituzionale è stato il Presidente della Repubblica.
In una situazione del genere, era impensabile che Napolitano potesse agire come i suoi predecessori della Prima Repubblica (eccezion fatta per un Giovanni Gronchi). Come insegnano gli studi di scienza politica, infatti, l’interventismo del Presidente della Repubblica tende fisiologicamente a crescere in una condizione di debolezza del sistema dei partiti, e viceversa a decrescere dove questi ultimi sono in salute. E non è possibile negare che i nostri partiti tutto sono meno che in salute.
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D’altro canto sarebbe un errore credere che si tratti di una congiuntura momentanea, legata agli ultimi anni. Se facciamo due passi indietro nella storia, infatti, notiamo il nome di un Francesco Cossiga – che tutto è stato meno che un Presidente “neutrale” – o di un Oscar Luigi Scalfaro – che nominò il governo Ciampi senza ricorrere al rito delle consultazioni – o, ancora, di un Carlo Azeglio Ciampi – che ha esercitato il potere di rinvio su leggi importanti come la riforma del sistema radiotelevisivo e la riforma della giustizia. Insomma: le criticità del nostro sistema politico sono un dato strutturale, che ci ha introdotti in una situazione di presidenzialismo “di fatto”.
Di fronte ad una situazione del genere, si è levato da più parti il desiderio non solo di accrescere i poteri del Presidente della Repubblica, ma anche – e di conseguenza – di affidare al popolo la sua elezione. Sarebbe piaciuto molto a Giulio Andreotti – che si vide “scippare” il Colle da Scalfaro solo perché a votare non era la società civile –, è stato per anni il sogno segreto di Silvio Berlusconi – che a più riprese ha sottolineato la necessità di riformare l’istituto presidenziale – ed è stato uno dei motivi di forza della campagna messa in piedi in questi giorni dal Movimento 5 Stelle a favore di Stefano Rodotà. Un fatto, quest’ultimo, che manifesta un altro singolare paradosso, poiché ci mostra un candidato al Quirinale (Rodotà) storicamente contrario al presidenzialismo che però accetta di essere presentato per la corsa al Colle mediante il metodo delle cosiddette “quirinarie” (cioè una forma, sia pur rozza ed embrionale, di elezione diretta del Presidente). Ma anche un fatto che obbliga ad acquisire un dato politico: la trasformazione in senso presidenziale delle nostre istituzioni non è più un’opzione. È una necessità. Ma anche un rischio.
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È necessario non limitarsi ad una risposta conservatrice – il “niet” storicamente opposto a sinistra – al problema della revisione della figura del Presidente della Repubblica, perché il problema è reale e disinteressarsene potrebbe significare lasciare campo netto alle pseudo-soluzioni di Grillo e Berlusconi. Ma è anche un rischio muoversi in direzione presidenzialista perché, inutile nascondercelo, viviamo in Italia, e cioè in un Paese in cui il “popolo” è molto incline ad affidarsi a figure messianiche o a scambiare per liberatori quelli che sono i suoi futuri oppressori. È accaduto con Mussolini. È accaduto con Berlusconi. C’è il rischio che accada anche con Grillo. E l’ultimo mese e mezzo di vita collettiva ha mostrato che non siamo affatto fuori pericolo, e che anzi siamo immersi fino al collo in quello che è il nostro costume tradizionale – basti pensare all’elezione di Laura Boldrini: è una degnissima persona, ma quanti conoscevano il suo nome appena un attimo prima che diventasse Presidente della Camera? Ed allora: sulla base di cosa – se non di un facile entusiasmo – la sua elezione è stata accompagnata dal giubilo generale?
In un quadro del genere, dunque, è del tutto secondario discutere di Rodotà e Napolitano. Perché Rodotà è senz’altro persona seria e competente, come serio e competente è Napolitano. Il punto, però, è che si è entrati in una situazione in cui il presidenzialismo (e, dunque, anche una riforma costituzionale) non è più un’opzione ma una necessità. Ma, nello stesso tempo, il ridicolo suicidio del centro-sinistra dà al Paese solo due forze in grado, in futuro, di realizzare un’opera di questo tipo: il centro-destra berlusconiano ed il movimento grillino. Il che è come dire: gli unici in grado di venire incontro a questa necessità sono i meno indicati ad offrire soluzioni che non sfocino in nuove forme di autoritarismo. Tutte queste cose Napolitano le sa, ed è probabilmente per questo che ha accettato di tornare al Quirinale. E non dubito che le sappia anche Rodotà, e per questo non posso non chiedermi come mai ha rivendicato il favore popolare per dare forza e legittimità alla sua corsa al Colle.

Tommaso Di Brango



NAPOLITANO RESTA AL QUIRINALE:
QUANDO GATTOPARDI, SCIACALLI E PECORE IMPEDISCONO IL CAMBIAMENTO

A quasi due mesi  dalle elezioni politiche, siamo ancora in attesa di un governo che sia in grado di dare una risposta alle richieste e ai bisogni del Paese e che provi a restituire dignità a un popolo svilito, deluso, umiliato. Dopo mille peripezie, l’Odissea delle elezioni per la Presidenza della Repubblica ci ha fatto approdare alla rielezione di Napolitano, chiamato per la prima volta nella storia repubblicana a rimanere sul Colle per un secondo mandato. Dunque ci sono voluti due mesi perché vedessimo l’Italia essere ricondotta al punto di partenza da chi ha abusato di parole quali cambiamento, novità, progresso e rinnovamento al punto da svuotarle del loro significato, da ridurle a meri suoni.
Nel momento in cui è scattato il quorum, tutti (o quasi) erano lì ad applaudire, a intonare l’inno nazionale, a ringraziare il Presidente per la disponibilità, lo spirito di sacrificio, il senso dello Stato e sono piovute da ogni dove esternazioni di stima e gratitudine per l’uomo che, di nuovo, ha accettato di caricarsi la croce sulle spalle. Si legge su  Le Monde: <<Nel campo di rovine che è diventato la politica italiana, Giorgio Napolitano è il solo a essere rimasto più o meno in piedi, affidabile, rassicurante, professionale>>. Sventurata la terra che ha bisogno di eroi, scrive Brecht: l’eroe in questione è la stessa persona che solo pochi giorni prima aveva parlato della sua rielezione come di una non-soluzione, ribadendo la necessità di guardare avanti e di avere il coraggio di compiere delle scelte, perché fare marcia indietro sarebbe stato sbagliato e <<ai limiti del ridicolo>>. Le forze presenti in Parlamento, invece, oltre a mancare di coraggio, non hanno nemmeno provato il minimo sentimento del ridicolo: ad elezione avvenuta, Berlusconi se la rideva, con la faccia beffarda di chi l’ha fatta franca un’altra volta, l’ennesima; Grillo gridava al golpe (ora golpettino), minacciando di scendere in piazza per poi fare marcia indietro, a riconferma dell’ inconcludenza che caratterizza il M5S; Bersani si scioglieva nel pianto liberatorio di chi sa di aver sbagliato ogni mossa, di aver perso tutte le battaglie in una guerra che non ha combattuto mai fino in fondo, inizialmente con l’illusione di avere già la vittoria in tasca e in un secondo momento perché troppo impegnato nel tentativo di ricomporre le fratture interne, rivelatesi poi insanabili, che hanno disintegrato il PD.
Tra tante ridicolaggini inconsapevoli, quello che Napolitano si accinge a nominare sarà, con ogni probabilità, un governo di scopo, basato su un programma minimo fatto di riforme come quello stilato dai dieci saggi: un nuovo governo delle banche, sulla falsariga di quello guidato da Monti – sostiene chi già grida all’inciucio senza aver fatto nulla di concreto per evitarlo.
<<Se vogliamo che tutto rimanga com’è – diceva Tancredi a don Fabrizio nel Gattopardo – bisogna che tutto cambi>> . Ai cittadini italiani, invece, è stato promesso che tutto sarebbe cambiato, che sarebbe nata una nuova politica, ma tutto sembra restare immobile, se non addirittura fare marcia indietro, come temeva proprio Napolitano. In attesa di uno scossone che ci risvegli da questo estenuante torpore politico, sarebbe bello  se sul paralizzante finale gattopardiano <<dopo sarà diverso, ma peggiore>>  a cui già ci prepariamo, avesse la meglio uno dei principi base del rugby, secondo cui –paradossalmente- bisogna passare la palla indietro se si vuole avanzare.

Anna Tanzi


UNO "STATO D'ECCEZIONE"
NAPOLITANO-BIS, O DELLA RESA DELLA DEMOCRAZIA PARLAMENTARE 

“Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione” Carl Schmitt, Teologia politica

Dopo neanche due anni dalla fatidica discesa in campo dei “tecnici” nel novembre 2011, e a pochi mesi dalle elezioni che avrebbero dovuto segnare il ritorno della “politica”, la nostra democrazia rappresentativa è stata messa nuovamente in stand-by. Con la rielezione dell'ormai “Re” Giorgio Napolitano a capo dello Stato, un unicum nella nostra storia repubblicana, si è consumato un ulteriore strappo verso un cosiddetto “presidenzialismo di fatto”. Imponendo ipso facto programmi e sostegno ad un ulteriore “governo di saggi” (stavolta metà tecnici, metà politici), il neo-ex Presidente si pone chiaramente come un moderno Leviatano che blinda le istituzioni sotto la propria egida. Le giustificazioni a questo stupro della democrazia sono le solite, nel sempre più smaccato e patetico politichese, “siamo in un momento difficile, eccezionale, in cui è indispensabile una presa di responsabilità collettiva (vedi anche: larghe intese, inciucio), e in cui ognuno deve saper onorare i propri doveri (vedi anche: “riforme” e austerity) per la salvezza della Nazione (!!!)”. La straordinarietà della situazione dunque, impone “decisioni forti”, l'Europa e i mercati ce lo chiedono, bello... (da notare il subitaneo plauso delle gerarchie internazionali alla rielezione di Re Giorgio). La medicina amara del “pensiero unico” neoliberista è l'unica soluzione per uscire dall'empasse in cui si trova il Paese. Eppure, non sembrava dovesse essere questo l'unico orizzonte politico concepibile, dopo un voto popolare che, nel bene e nel male, aveva attestato un sentimento di rottura e di discontinuità rispetto alle politiche dei “tecnici”. In realtà, comunque la si giri, quello che risulta ormai evidente, è lo strappo definitivo tra istituzioni e società, venuto fuori con l'eclissarsi dei partiti politici tradizionali, incapaci da tempo di porsi come mediatori e rappresentanti degli interessi dei cittadini. In questo scenario da “finale di partito”, è inutile affidarsi a sedicenti salvatori della patria o invocare tardivi coprifuoco e “poteri che trattengono”. La vera eccezione deve essere la partecipazione in massa alle decisioni democratiche attraverso modi e pratiche nuove che già oggi si sperimentano (No Tav, Beni comuni, Cambiare si può...). Una spinta propulsiva “dal basso”, che inneschi forme di auto-organizzazione della società e  strutture sempre più “leggere” di rappresentanza. Utopia? Fantapolitica? Il momento è eccezionale, esige soluzioni “eccezionali”.

Mario Ciaburri




 

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